domenica 22 aprile 2018
Il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso dei francesi contro l'inserimento del cambio dei consiglieri nell'ordine del giorno dell'assemblea del 24 aprile. Per l'Italia ciò che conta è la rete
Paul Elliott Singer (New York, 22 agosto 1944), fondatore e azionista del fondo Elliott Management Corporation, tra i maggiori fondi hedge americani (Ansa)

Paul Elliott Singer (New York, 22 agosto 1944), fondatore e azionista del fondo Elliott Management Corporation, tra i maggiori fondi hedge americani (Ansa)

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Lo scontro tra Vivendi e il fondo Elliott Management non andrà in scena all'assemblea di Tim del 24 di aprile. Elena Riva Crugnola, presidente della Sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano, ha accolto il ricorso della società di Vincent Bolloré ha fatto ricorso contro la decisione dei sindaci di inserire all’ordine del giorno il voto sulla nomina di sei amministratori candidati da Elliott per sostituire gli otto in quota Vivendi che hanno dato le dimissioni con il preciso obiettivo di ostacolare le mosse del fondo americano. Quindi gli azionisti non potranno votare sul cambio dei consiglieri e lo scontro tra il fondo americano e il gruppo francese a questo punto è rimandato al 4 di maggio, quando l’assemblea dei soci sarà chiamata di nuovo a riunirsi, stavolta per rinnovare l'intero consiglio di amministrazione.

Chi prenderà il controllo del consiglio di amministrazione potrà decidere le strategie per il futuro di Tim. In questo scontro per il controllo dell’ex monopolista italiano della telefonia, Elliott sembra più attrezzato per vincere. Il fondo creato dal 73enne Paul Singer nel 1977 dispone di una quantità enorme di liquidità, 32 miliardi di dollari, ha già l’8,8% di Tim e i diritti per salire fino al 13,7%. Le società di consulenza ai fondi istituzionali che si sono espresse – Iss, Glass Lewis e Frontis – si sono schierate a fianco del fondo di Singer, così come Asati, che associa i piccoli azionisti. Anche la Cassa Depositi e Prestiti, ente controllato dal Tesoro che è entrata in partita comprando il 4,3% delle azioni, è orientata a dare sostegno a Elliott. Insomma, tutti sono contro Vivendi, che nonostante sia il primo azionista con il 23,95% delle azioni (quota pagata ben 4 miliardi di euro) sembra destinata a finire in minoranza.

Non è una guerra tra buoni e cattivi, ma tra cattivi e cattivi.Vivendi ed Elliott si sono dimostrati da tempo soggetti privi di scrupoli. Di Vivendi basta ricordare quello che ha tentato di fare con Mediaset nel 2016, stracciando il contratto già firmato per l’acquisto di Premium (vicenda per cui Mediaset ha intentato una causa civile) per poi lanciarsi in una scalata ostile (fallita) all’azienda dei Berlusconi. Di Elliott si possono citare operazioni di successo anche 'etico', come quella che ha fatto emergere i casi di corruzione all’interno del gruppo Samsung, con relativo allontamento e processo all’erede della dinastia dell’elettronica coreana Jay Y. Lee, nonché l’ottenimento di un secondo default dell’Argentina, nel 2014, con relative indagini per corruzione a carico dell’ex presidente Cristina Kirchner.

L’attività del fondo di Singer ha però molti aspetti controversi, come documentato lo scorso dicembre il magazine finanziario americano Fortune in un’inchiesta molto dettagliata dal titolo “Dentro Elliot Management: come fa a vincere sempre il fondo di Paul Singer”. L’inchiesta racconta dei metodi poco ortodossi che il fondo attivista usa per convincere le aziende ad accogliere le sue richieste. Tra questi l’uso di investigatori privati per raccogliere informazioni sulla vita privata dei manager ostili e delle loro famiglie. Una volta uscita l’inchiesta, Elliott ha smentito. Fortune riporta tra le altre la testimonianza Bill Grabe, assistente di direzione del fondo General Atlantic chiamato a dare la sua versione dei fatti un arbitrato giudiziale con al centro Elliott. Grabe ha raccontato ciò che ha visto durante una riunione negli uffici newyorchesi di Elliott tra il giovane Jesse Cohen, 38enne capo delle strategie “attiviste” del fondo in America, e il consiglio di amministrazione di Compuware, società che Elliott, da azionista attivista, voleva vendere a un fondo di private equity. Cohn, ha detto Grabe, aveva sulla scrivania uno spesso faldone dal quale spuntavano documenti con «informazioni presumibilmente imbarazzanti su suoi ospiti» e a un certo punto ha tirato sfacciatamente in mezzo la figlia di uno degli invitati, Fritz Anderson, ex amministratore delegato di General Motors, con una frase tipo «e sai, tu hai una figlia che fa questo e quest’altro…».

Non risulta che niente del genere sia successo nell’operazione per il controllo di Tim, ultima battaglia intrapresa da Singer. Anche in questo caso vale però l’avvertimento di Marc Weingarten, avvocato che in passato ha aiutato il fondo a vincere alcune delle sue guerre: «Quando si presenta Elliott, è una partita del tutto diversa. Sono instancabili. Hanno i soldi e non baderanno a spese per assicurarsi di vincere».

Si vedrà. Il futuro del Paese non dipende dall’esito di questa battaglia finanziaria tra due soggetti stranieri. Quello che più conta, per l’Italia e i suoi cittadini, sono le consugenze chelo scontro per il controllo della nostra principale azienda di telecomunicazioni può avere sull’Italia e sui suoi cittadini. In quest’ottica l’appoggio che il governo si appresta a dare ad Elliott appare sensato. Il fondo americano vuole portare avanti lo scorporo della rete dal gruppo Tim, con l’obiettivo di incassare una bella cifra (l’infrastruttura è valutata tra i 10 e i 15 miliardi di euro) e valorizzare l’investimento. Vivendi non sembra invece disposta a concedere di più di quanto già presentato dall’amministratore delegato Amos Genish, cioè la creazione di una società della rete il cui controllo resterebbe in mano a Tim.

Tra i due progetti, quello degli americani è più interessante per l’Italia. Siamo infatti in una situazione anomala rispetto a quella degli altri Paesi europei, perché siamo gli unici privi di un operatore telefonico effettivamente 'nazionale'. Il mercato delle telecomunicazioni è infatti popolato da aziende a controllo straniero: la 'francese' Tim, la russo-cinese Tre-Wind, la britannica Vodafone e la Fastweb di proprietà della svizzera Swisscom. Il mercato italiano delle telecomunicazioni è aperto e internazionale, e questo può anche essere positivo. La concorrenza può funzionare meglio se la rete che rappresenta la base del sistema è indipendente, invece di appartenere a uno dei contendenti. È quello che già accade, per esempio, nel mercato dell’elettricità e del gas, dove l’infrastruttura di distribuzione è stata separata dagli ex monopolisti.

L’auspicio del governo e dei principali partiti è che una rete delle telecomunicazioni separata da Tim possa poi essere fusa, a livello societario, con Open Fiber, la società semi-pubblica che ha come azionisti Enel e la Cdp. A quel punto l’Italia si troverebbe con una società nazionale delle rete di telecomunicazioni capace di temperare e tenere in equilibrio il mercato, facendo magari quegli investimenti per l’innovazione che in questi anni sono mancati.

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