sabato 24 marzo 2018
Con la guerra commerciale dichiarata alla Cina, il presidente americano sceglie la via unilaterale. Nella sua strategia non c'è più spazio per l'Organizzazione mondiale del commercio
C'è più di qualche ombra sul futuro dell'Organizzazione mondiale commercio (Ansa)

C'è più di qualche ombra sul futuro dell'Organizzazione mondiale commercio (Ansa)

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Gli Stati Uniti e la Cina sono a un passo dalla guerra commerciale. I dazi su acciaio e alluminio che Donald Trump aveva annunciato l’8 marzo sono in vigore da ieri. Le diverse esenzioni previste, compresa quella temporanea per l’Europa, confermano quello che già la Casa Bianca aveva detto esplicitamente: nel mirino c’è Pechino, che pur avendo una quota poco rilevante delle importazioni di acciaio in America sarà tra la nazioni più danneggiate, in quanto farà più fatica a scaricare su mercati internazionali diventati “più stretti” la sua enorme sovraproduzione di metallo.

Quei dazi sono stati per Washington una prova generale prima dell’attacco vero, in arrivo nel giro di poche settimane. Avviando la procedura prevista dalla sezione 301 del Trade Act statunitense, giovedì, Trump e il suo rappresentante per il Commercio, Robert Lightizer, hanno promesso misure per colpire circa 60 miliardi di dollari di importazioni cinesi negli Stati Uniti, con particolare attenzione al settore tecnologico. L’ambasciata cinese negli Stati Uniti ha avvertito con chiarezza che Pechino non starà a guardare: «La Cina non ha paura e non si tirerà indietro da una guerra commerciale. La Cina è fiduciosa e capace si affrontare ogni sfida. Se gli Stati Uniti dovessero avviare una guerra commerciale, la Cina lotterà fino alla fine per difendere i suoi legittimi interessi con tutte le misure appropriate».

Con una strategia simile a quella che l’Europa ha adottato per scoraggiare Washington dall’andare fino in fondo sui dazi per l’acciaio, il ministero del Commercio cinese ha pubblicato una lista di 128 prodotti americani su cui potrebbe rivalersi. Dentro c’è un po’ di tutto, dalla carne di maiale all’alluminio riciclato, con dazi che vanno dal 15 al 25%. Sono prodotti che complessivamente valgono 3 miliardi di dollari di export americano in Cina, cioè solo un ventesimo dell’export cinese che Trump intende colpire. Pechino sta scegliendo la linea morbida, nella speranza di riuscire ad evitare la guerra.

In una situazione normale, uno scontro come questo si potrebbe risolvere al tavolo della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio di cui la Cina fa parte dal 2002. Ma è sempre più chiaro che Trump ha intenzione di sbarazzarsene. Oltre ad ostacolare la nomina dei nuovi giudici necessari a fare funzionare il tribunale della Wto (che senza novità dal 2019 finirà per bloccarsi) Washington ha scelto di ricorrere al principio di sicurezza nazionale per introdurre i suoi dazi sui metalli. Ricorrere a questo principio è consentito dall’articolo XXI del trattato della Wto, ma quasi nessuno lo aveva sfruttato, perché farlo significa esautorare l’organizzazione che dal 1995 è il grande arbitro del commercio mondiale e della globalizzazione economica.

Ieri a Ginevra la riunione del comitato del commercio della Wto è stata durissima. Cina, Russia, Europa, Brasile, Giappone, Australia e altri Paesi hanno criticato le scelte di Trump, ribadendo che il criterio della sicurezza non è giustificato. Ma non sono principi che si possono sindacare: per quante concessioni di sovranità un Paese possa fare, nessuno può chiedergli di fare rinunce che mettono a rischio la sicurezza. Il direttore generale, Roberto Azevêdo, non ha potuto fare altro che invocare il dialogo:«Distruggere i flussi commerciali metterà a rischio l’economia mondiale, in un momento in cui la ripresa economica, anche se fragile, è sempre più evidente in tutto il mondo – ha spiegato –. Chiedo ancora moderazione e urgente dialogo come il migliore percorso per risolvere questi problemi».

Anche gli investitori si sono resi conto che Trump sta facendo sul serio e si sta confermando un tipo imprevedibile. Ostacoli al commercio globale sono qualcosa che temono quasi tutte le grandi aziende quotate. Questo spiega il crollo di Wall Street, che giovedì ha perso quasi il 3% e ieri ha provato a risalire ma è finita di nuovo in pesante rosso, con il Dow Jones che ha chiuso con un -1,8%. È andata molto peggio in Asia, dove Tokyo ha perso il 4,5% e Shanghai il 3,4%. In Europa, Francoforte, la Borse della Germania mercatista, ha lasciato l’1,8%, mentre Parigi ha perso l’ 1,4%, Milano lo 0,5% e Londra lo 0,4%.

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