venerdì 9 dicembre 2016
La "soluzione di mercato" coinvolgeva direttamente il presidente del Consiglio ed è naufragata con lui. La proroga poteva servire ad avere un governo di continuità. Francoforte ha detto no.
Così la Bce ha separato le sorti di Mps da quelle di Renzi
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Con il suo “no” ai venti giorni in più per completare l’aumento di capitale del Monte dei Paschi il Consiglio di vigilanza della Banca centrale europea ha separato le sorti della banca più antica del mondo da quelle di Matteo Renzi.

Il presidente del Consiglio uscente si era impegnato direttamente nella «soluzione di mercato» per Mps. Non è un mistero che il piano di JPMorgan per il rilancio di Montepaschi sia nato la scorsa estate dopo un incontro, a inizio luglio, tra Renzi e Jamie Dimon, il supermanager (27 milioni di dollari di compenso nel 2015) che da più di un decennio guida la banca americana. Non è un mistero nemmeno che su questa «soluzione di mercato» per Mps Renzi e Pier Carlo Padoan avessero idee diverse: il ministro dell’Economia era per il salvataggio di Stato che evitasse il contagio sul resto del sistema del credito, il presidente del Consiglio non se la sentiva, con il caso Banca Etruria ancora caldo, di mettere la faccia su un salvataggio di Stato in un settore così poco popolare come quello delle banche.


Renzi ha vinto la sua partita, l’amministratore delegato Fabrizio Viola è stato congedato da Padoan e sostituito con Marco Morelli e da quel momento le sorti del piano di rilancio di Mps si sono inesorabilmente legate a quelle del governo. Era inevitabile e questo per un problema di partenza mai ammesso apertamente: per quanto privato potesse essere il salvataggio nessuno aveva intenzione di mettere soldi nella banca senza la garanzia di avere il governo italiano dalla propria parte. La stessa Mps lo ha scritto chiaramente a pagina 6 della relazione con cui ha accompagnato la richiesta di lanciare un aumento di capitale da 5 miliardi di euro presentata all’assemblea del 24 novembre: il consiglio di amministrazione prendeva atto della «sostanziale indisponibilità manifestata dagli investitori istituzionali ad assumere importanti decisioni di investimento relative a società italiane prima di conoscere l’esito del referendum costituzionale, la cui data è stata da ultimo fissata nel 4 dicembre 2016».

In realtà non è che ci fosse proprio la fila di “investitori istituzionali” davanti all’antico portone di Piazza Salimbeni. L’unico grande soggetto che sembrava pronto a puntare su Siena era il fondo sovrano del Qatar, molto ricco, poco schizzinoso e per nulla insensibile alle implicazioni politiche delle sue scelte di investimento (tre giorni fa assieme alla multinazionale svizzera Glencore ha comprao per 10,5 miliardi di dollari il 19,5% del colosso petrolifero russo Rosneft). Ma questo è ormai passato, perché anche il fondo degli emiri sembra avere lasciato perdere, una volta visto che l’esito del referendum ha fatto cadere il governo.


La bomba Mps, infatti, non è scoppiata ieri, ma lunedì, quando è diventato chiaro che la «soluzione di mercato» non c’era proprio più e la strada del salvataggio pubblico era l’unica percorribile. Il piano "privato" per Mps è così naufragato assieme al governo. Gli investitori, che se lo aspettavano perché avevano visto i sondaggi, non si sono fatti prendere dal panico e anzi, presto hanno iniziato a festeggiare l’arrivo dei soldi pubblici.

In questo quadro quei venti giorni in più «per il mutato contesto di riferimento» richiesti dalla banca alla Bce mercoledì sono una richiesta curiosa. Se gli investitori erano «indisponibili» a puntare sul rilancio del Monte dei Paschi prima di sapere come andava a finire il referendum, perché gli sarebbero dovute bastare tre settimane per cambiare idea dopo la vittoria del "no"? Forse – è un’ipotesi – perché questi giorni in più gli potrebbero permettere di scoprire che il successore di Renzi sarà Renzi stesso, o qualche suo ministro garante della continuità. Ma questo è un gioco della politica italiana che non può convincere i "tecnici" della Bce.

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