giovedì 19 marzo 2020
Le compagnie hanno costi alti e cassa che basta per pochi mesi. La maggior parte rischia di fallire entro maggio. La Iata chiede 200 miliardi. I governi organizzano i soccorsi
Molti vettori sembrano diretti verso il tramonto

Molti vettori sembrano diretti verso il tramonto - Pixabay

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Gli allarmi più disperati per la crisi economica mondiale scatenata dal coronavirus sono arrivati dalle compagnie aeree. È comprensibile: in quasi tutto il mondo “ricco” le persone sono costrette a rimanere a casa, gli aeroporti si chiudono, gli aerei restano a terra e le compagnie si trovano a sostenere enormi costi fissi senza avere gli incassi dei biglietti. S&P prevede un calo di passeggeri del 20–30% quest’anno e un recupero dei ricavi non prima del 2022–2023.

Per un settore a intenso uso di capitale come il trasporto aereo questa crisi può essere letale. Nelle prossime settimane decine di Paesi rischiano di trovarsi a gestire una loro “Alitalia”. L’Italia, da questo punto di vista, può tristemente vantare la sua lunga tradizione nella gestione di un vettore in perdita: si cerca di contenere il passivo e si usano soldi pubblici per evitarne la chiusura. Cosa che questo governo ha appena fatto stanziando i 500 milioni di euro destinati alla nazionalizzazione di Alitalia per il 2020 con il decreto Cura Italia. Stavolta, però, non saremo gli unici.

La Iata, l’associazione mondiale del settore, ha calcolato il 5 marzo che nel caso peggiore i ricavi del trasporto aereo potrebbero crollare di 113 miliardi di euro. Quel calcolo però non teneva conto degli effetti sul trasporto merci e nemmeno della stretta sui voli transatlantici e della chiusura dell’area Schengen arrivate pochi giorni dopo. Adesso la perdita prevista potrebbe essere più che raddoppiata. La tipica compagnia aerea, ricorda la Iata, all’inizio dell’anno ha cassa per provvedere alle spese di due mesi di voli e conta sugli incassi dei biglietti per finanziare l’attività del resto dell’anno. Al momento, secondo i calcoli dell’associazione, la liquidità nelle casse delle aziende è sufficiente in media per meno di tre mesi di voli.

In Europa ci sono casi positivi, come quelli di Wizz Air e Ryanair, dove la cassa è superiore al 40% del fatturato 2019, ma in genere i giorni di attività sostenibili con i soldi a disposizione in questo momento sono pochi: 132 per Iag, il gruppo che controlla British Airways, Iberia e Aer Lingus; 81 per Air France Klm; 51 per Lufthansa, a cui martedì Moody’s ha tagliato il rating a livello Ba1, cioè “spazzatura”. Senza troppi giri di parole Capa, società di consulenza di riferimento del settore aereo, lunedì ha scritto che «per la fine di maggio, la maggior parte delle compagnie aeree del mondo sarà in bancarotta».

Tutte le compagnie in questi giorni si sono organizzate per ridurre il più possibile le rotte, così da evitare di fare volare aerei mezzi vuoti. Sono già stati annunciati migliaia di tagli di posti di lavoro. E sono partite le richieste di aiuto ai governi. Hanno lanciato il primo Sos congiunto le tre alleanze principali, oneworld, SkyTeam e Star Alliance, chiedendo anche la collaborazione delle società aeroportuali, perché eliminino temporaneamente le tasse, e degli enti di regolazione, perché non applichino le regole sull’uso degli slot.

Ma serve presto liquidità. Dagli Stati Uniti il governo ha predisposto un sostegno sostanzioso. All’interno del pacchetto da 850 miliardi di dollari (forse mille, non è ancora chiaro) che sta preparando Donald Trump ce ne sono 50 per le compagnie aeree. Difficilmente basteranno. La sola Boeing, che non è una compagnia aerea ma un costruttore, ha appena chiesto linee di liquidità per 60 miliardi di dollari per far fronte al blocco totale degli ordini. Forse per darle soccorso, Trump ha annunciato un rialzo, dal 10 al 15%, delle tasse sui prodotti della rivale europea Airbus, ma in questo momento non possono essere i dazi a salvare Boeing.

Anche l’Europa è chiamata a evitare la bancarotta delle sue compagnie aeree. L’associazione europea Airlines for Europe (A4E) ha scritto una lettera aperta alla Commissione europea in cui chiede aiuto e ricorda che il settore sostiene 2,6 milioni di posti di lavoro diretti e altri 12,2 milioni se si considera l’indotto. Ieri i ministri dei Trasporti dell’Unione Europea si sono riuniti, naturalmente a distanza, per discutere anche di una strategia comune di aiuti al settore.Qualcuno si è mosso in autonomia, come ha fatto l’Italia con Alitalia o la Danimarca con la scandinava Sas (che ha appena ottenuto una garanzia pubblica, condivisa con la Svezia, da 300 milioni di dollari). Ma il rischio di un collasso di sistema è così elevato che difficilmente se ne potrà uscire senza un piano condiviso. Al vertice di ieri, però, i ministri non sono riusciti a produrre ancora nulla di concreto. Le compagnie restano in attesa di un salvagente.

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