venerdì 27 ottobre 2017
La quarta rivoluzione industriale scardina le separazioni tra attività e tempo libero. Ma serve riequilibrare gli impegni.
Reuters

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Se la rivoluzione digitale cancellerà buona parte del lavoro oggi esistente o se si limiterà a farlo evolvere, eliminando vecchi mestieri, introducendone di nuovi e trasformando le modalità di esecuzione degli altri, è la questione principale di questo decennio. Ma c’è sottesa un’altra domanda non meno importante: come l’impatto della tecnologia stia già cambiando, e potrebbe rivoluzionare totalmente, il tempo di lavoro, la scansione degli orari, la vita stessa dei lavoratori e di tutti noi.

Il tema è uno di quelli al centro della discussione in questa Settimana sociale a Cagliari, ma certo agita da tempo il dibattito fra gli esperti e non solo, divisi tra chi pensa che l’innovazione vada sfruttata per ridurre gli orari e l’impegno dell’uomo nel lavoro, anche per redistribuirlo, e coloro che invece ritengono anti-economico e controproducente, oltre che 'innaturale' per le persone, una riduzione delle attività e degli orari.

È interessante, ad esempio, come a tale questione siano stati dedicati due capitoli – «Istituzioni per la vita attiva» e «La vita buona» – della relazione finale su «L’impatto sul mercato del lavoro della Quarta rivoluzione industriale» redatta e approvata nelle scorse settimane dalla Commissione Lavoro del Senato. Oltre ai problemi di invecchiamento della popolazione; i rischi di polarizzazione professionale, reddituale e territoriale; il passaggio dai tradizionali percorsi di occupazione e carriera a «un mercato transizionale del lavoro» – nel quale si cambia con grande frequenza non solo azienda, ma tipologia di lavoro, di inquadramento e di contratto – la sintesi mette in evidenza come la quarta rivoluzione industriale scardini le novecentesche separazioni tra attività e tempo libero, lasciando spazio a «un tempo di lavoro poroso» che spesso si sovrappone agli altri tempi di vita.

Da un lato ciò permette la valorizzazione del risultato del lavoro, piuttosto che delle ore impiegate per ottenerlo e sulle quali finora si misurava la produttività; dall’altro però apre la strada a fenomeni di super-lavoro per ottenere il risultato richiesto e di costante connessione con i nuovi mezzi di comunicazione digitale, a scapito della propria libertà e dei rapporti familiari e interpersonali.

Quello che il Papa, nella sua visita a maggio a Genova, aveva definito come una delle forme di «cattivo lavoro, di chi è pagato molto perché non abbia orari, limiti, confini tra lavoro e vita, perché il lavoro diventi tutta la vita». Imporre regole, anche solo per via contrattuale può essere certamente utile per porre un freno alle pretese datoriali, ad esempio di essere costantemente connessi in remoto con gli strumenti di lavoro – nota ancora la relazione della commissione presieduta da Maurizio Sacconi – ma le norme non sono in grado di impedire al lavoratore stesso di perseguire senza tregua quel risultato su cui sarà giudicato e remunerato o di acquisire senza sosta informazioni che lo mantengano costantemente aggiornato.

Oltre alle regole, dunque, è la conclusione dei senatori, «dobbiamo auspicare che nel nuovo contesto liquido si muova un uomo solido perché dotato di quei principi che danno valore ad una vita buona in quanto equilibrata tra lavoro, affetti e riposo. Si ripropone ancora una volta il tema della educazione di base e in essa di quella formazione morale che corrisponde ai principi che la nostra Carta fondamentale riconosce».

Educazione, formazione morale, persona solida. Concetti antropologici piuttosto che economici. Gli stessi dai quali muove il dibattito qui alla Settimana sociale, partendo da una concezione altrettanto rivoluzionaria: quella di «ridefinire i confini stessi del lavoro, configurando un nuovo modo di concepire il lavoro a tempo pieno – si legge nell’Instrumentum laboris al punto 67 – diminuendo le ore di lavoro per investirle nella cura, intesa come assistenza, il prendersi cura dei bambini, degli anziani, dei più deboli, in famiglia e nelle comunità, per la coltivazione delle relazioni e della propria umanità».

Pura utopia? O una possibilità offerta proprio dal potente apporto delle nuove tecnologie che permettono di produrre più di prima con meno persone, energie e costi? «L’idea – si spiega nel documento – è che una persona non è pienamente umana se non sa prendersi cura degli altri». E, sul piano economico, un tempo di lavoro ridotto e una maggior capacità di cura di chi ne ha bisogno permetterebbero allo Stato di risparmiare in spese di assistenza e di redistribuire il lavoro su più persone. Senza ovviamente 'scaricare' tutta l’attività di cura solo sulle donne, ripartendola invece fra i due generi.

D’altronde, che il modello attuale non funzioni lo dimostrano non solo le cifre su disoccupazione e inattività femminile, ma più ancora il tasso di abbandono del lavoro per dimissione o licenziamento, superiore al 20% in media, delle donne quando hanno un figlio, con punte fino al 40% nel Mezzogiorno. È certamente un problema di inadeguatezza dei servizi offerti alle famiglie, ma anzitutto di disequilibrio dei carichi familiari e di conciliazione difficile o impossibile tra lavoro e tempi di vita. Un nodo culturale assai prima che economico, che proprio la rivoluzione digitale può aiutarci a sciogliere.

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