giovedì 22 novembre 2018
Tra i criteri Esg c'è molto lavoro da fare sul lato dell'inclusione
John Morrison

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Senza dubbio è ambizioso, ma lo stesso Piano d’azione dell’Unione europea per la promozione della finanza sostenibile è dichiaratamente sbilanciato sul lato "verde" della sostenibilità, avendo posto a fondamento la necessità di mobilitare capitali per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di Co2 dell’Accordo di Parigi. Ciò conferma come la "e" dell’acronimo Esg, con cui si indica l’integrazione di aspetti ambientali, sociali e di governance nel processo d’investimento, prevalga al momento nettamente sulla "s", che indica la dimensione sociale. Varie iniziative a livello mondiale, però, stanno cercando di riportare nel radar degli investitori che operano secondo principi e criteri di sostenibilità la questione sociale. E segnatamente il tema dei diritti umani.Una delle più importanti è il Corporate Human Rights Benchmark (Chrb), prima graduatoria internazionale sui comportamenti delle imprese quanto a tutela e promozione dei diritti umani.Chrb è stato lanciato nel 2017 in collaborazione fra organizzazioni della società civile attive sui diritti umani (Bhrrc-Business & Human Rights Resource Centre, Ihrb-Institute for Human Rights and Business), grandi investitori e gestori impegnati nella sostenibilità (Aviva, Nordea, gli olandesi di Apg) e il contributo di ricerca di primarie agenzie di rating di sostenibilità (Vigeo Eiris, RepRisk). L’analisi utilizza cento indicatori che fanno riferimento a quanto previsto dai Principi guida per le Imprese e i Diritti umani adottati dalle Nazioni Unite nel 2011. E pochi giorni fa è stata resa nota l’edizione 2018 della classifica, che ha preso in considerazione le performance sui diritti umani di 101 imprese internazionali, in tre settori considerati particolarmente esposti a rischi di violazioni: l’industria estrattiva, l’agricoltura, il tessile e abbigliamento.Sebbene con delle eccezioni (Adidas, Rio Tinto, Bhp Billiton le aziende ai primi tre posti, al settimo Eni, prima delle italiane), i risultati restituiscono una realtà piuttosto desolante per quanto riguarda l’impegno delle imprese nella protezione dei diritti umani. Il 40% delle imprese non mostra di aver identificato o mitigato l’impatto della propria attività sui diritti umani, specie con riferimento alla catena di fornitura. I due terzi hanno ottenuto un punteggio inferiore al 30% del massimo. Il punteggio medio non è andato oltre il 27%. Solo 15 imprese sono sopra il 50% del punteggio massimo e più di un quarto è sotto il 10%. Meno del 10% sono impegnate nel rispetto dei cosiddetti "difensori dei diritti umani" (sui quali prevede specifiche disposizioni, ad esempio, il Piano di Azione nazionale Impresa e Diritti umani italiano) e praticamente nessuna dimostra un impegno forte nel garantire salari dignitosi ai lavoratori nella catena di fornitura. «Le aziende – ha dichiarato John Morrison, direttore di Ihrb e nel Comitato consultivo di Chrb – devono dimostrare come stanno affrontando queste sfide per proteggersi da sanzioni legali o da azioni da parte di investitori e consumatori». Aviva, Apg e Nordea, infatti, che insieme gestiscono più di un trilione di dollari di asset, hanno dichiarato che terranno conto dei risultati di Chrb nelle proprie decisioni d’investimento.

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