domenica 24 febbraio 2019
Vittoria degli investitori attivisti che premono per il contrasto al cambiamento climatico: il gigante anglo-svizzero mette un tetto alle vendite della più inquinante delle fonti energetiche
Il complesso della miniera di carbone di Bulga, in Australia, dove Glencore produce 12 milioni di tonnellate di carbone all'anno (foto Glencore)

Il complesso della miniera di carbone di Bulga, in Australia, dove Glencore produce 12 milioni di tonnellate di carbone all'anno (foto Glencore)

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Chi vuole continuare a ricevere gli investimenti dei più grandi fondi del mondo non può più ignorare il contrasto al cambiamento climatico. Ne ha preso atto anche Glencore, gigante minerario anglo-svizzero nonché primo operatore al mondo nel mercato delle materie prime, che il 20 febbraio ha annunciato l’intenzione di non incrementare la produzione di carbone.

Tra le fonti di energia elettrica, il carbone è quello con la più alta emissione di anidride carbonica per kilowattora generato. Per questo motivo da anni viene incoraggiata la chiusura delle centrali che bruciano carbone, anche se in diversi Paesi – su tutti Cina e India – si moltiplicano le aperture di cantieri per avviarne di nuove. Glencore ha scelto di imboccare la via della transizione verso un’energia a bassa emissione e il “tetto” alla produzione di carbone è un primo significativo passo in questa direzione.

La scelta di ribilanciare il portafoglio in un’ottica più sostenibile, ha spiegato il gigante minerario, arriva dopo la discussione con investitori che hanno firmato la “Climate Action 100+”, la piattaforma che riunisce investitori attivi nella spinta dei grandi gruppi verso scelte più sostenibili sul lato ambientale. La strategia include anche altri comportamenti indirizzati a misurare l’impatto ambientale dell’attività dell’azienda. L’annuncio è arrivato nello stesso giorno in cui il gruppo ha mostrato i risultati preliminari del 2018, un bilancio che mostra quanto il carbone sia prezioso nella strategia di Glencore. L’azienda ha infatti chiuso l’anno con 13,3 miliardi di dollari di utili industriali, e di questi ben 5,2 miliardi vengono dal carbone. Il carbone sta dando grandi soddisfazione all’azienda: nel 2017 Glencore ne aveva prodotto per 120 milioni di tonnellate, lo scorso anno è salito a 129 milioni e quest’anno arriverà a 145 milioni. È quello il livello a cui si fermerà, a meno di aumenti “tecnici” se dovesse rilevare quote delle sue joint venture attive nel carbone.

Non è detto che questa strategia di maggiore sostenibilità abbia effettivamente dei costi per Glencore, notano gli analisti più attenti. Il gruppo è il principale esportatore mondiale di carbone e uno dei più produttori fuori dalla Cina. Riducendo il suo contributo di materia prima al mercato, l’azienda potrebbe vedere salire le quotazioni: in questo modo potrebbe guadagnare più o meno le stesse cifre, ma vendendo meno carbone. «Mettere un tetto alla produzione di carbone è significativo perché i prezzi potrebbero rimanere alti davanti a un taglio dell’offerta. Glencore sta in- seguendo il valore invece che il volume » nota Prakash Sharma, della società di consulenza Wood Mackenzie.

Dopo un forte rialzo iniziato nella primavera del 2016, le quotazioni del carbone australiano – principale riferimento sul mercato delle materie prime – sono in calo dall’estate scorsa: a luglio sfioravano i 120 dollari per tonnellata, ora sono a 98. C’è anche da dire che altre società minerarie, come Rio Tinto, hanno fatto scelte più radicali, uscendo del tutto dalla produzione di carbone. Al di là delle sue convenienze economiche l’effetto ambientale della scelta di Glencore resta. Così come l’esempio di efficacia dell’attivismo azionario, una delle strategie tipiche della finanza sostenibile. In questo caso a guidare la protesta contro le scelte anti- ambientali dell’azienda era stata la Chiesa d’Inghilterra. Nell’azionariato di Glencore ci sono soggetti come il fondo americano BlackRock che ultimamente si sono molto spesi sul fronte della finanza etica. Gli investimenti che erano previsti per il carbone saranno comunque conservati, ma reindirizzati sulla produzione dei metalli con cui si producono le auto elettriche, le batterie e le energie rinnovabili. Quindi rame, nichel e cobalto, tutti prodotto su cui il gruppo è già forte.

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