giovedì 19 gennaio 2017
Il presidente cinese a Davos invoca l'apertura dei mercati ma negli ultimi anni Pechino ha intensificato sussidi e aiuti alle imprese dello Stato per farne imbattibili campioni dell'economia globale
Sostenitori del presidente cinese Xi Jinping lo festeggiano davanti alla sede europea dell'Onu, a Ginevra (Ansa-Epa)

Sostenitori del presidente cinese Xi Jinping lo festeggiano davanti alla sede europea dell'Onu, a Ginevra (Ansa-Epa)

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«Che vi piaccia o meno, l’economia globale è il grande oceano dal quale non potete scappare» ha detto con una delle sue metafore pittoresche Xi Jinping alla platea del World Economic Forum di Davos. Quello che il presidente cinese non ha aggiunto è che la Cina sta intensificando gli sforzi per diventare il grande squalo bianco di questo immenso oceano. Ma se il mare è uno spazio animale dove vige la regola del più forte, l’economia globale è uno spazio umano, regolato da leggi e accordi internazionali che impediscono ai più forti di mangiarsi i più deboli. Sta lì la differenza tra l’idea di globalizzazione che ha in mente il segretario del Partito Comunista cinese e quella su cui tradizionalmente l’Occidente ha costruito l’apertura dei mercati internazionali negli ultimi decenni.


È questo il senso dello scontro tra la Cina da una parte e gli Stati Uniti e l’Europa dall’altra in corso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Nel novembre del 2001 la Cina ha firmato il protocollo per l’ingresso nel Wto, un testo dove Pechino prendeva diversi impegni – tra i quali quello di lasciare che il prezzo dei beni e dei servizi fosse determinato dalle forze del mercato – che le avrebbero permesso gradualmente di essere trattata negli scambi internazionali come le altre "economie di mercato", senza dazi o altre barriere commerciali. Quel protocollo diceva anche che dopo 15 anni gli altri paesi del Wto avrebbero smesso di usare metodi diversi dai costi di produzione cinesi per valutare se la Cina stesse facendo dumping, cioè esportazioni sottocosto con l’obiettivo di indebolire le imprese dei paesi di destinazione.

I quindici anni sono scaduti lo scorso 11 dicembre e né l’Ue né gli Usa hanno ritenuto che la Cina avesse rispettato gli impegni presi con il Wto, per cui non le hanno concesso lo status di "economia di mercato". Pechino, furiosa, ha presentato due ricorsi e toccherà al Wto, se Trump non lo abbatterà prima, risolvere il nodo legale.


La questione fattuale, però, è molto meno controversa. Il Wto non dà una sua definizione di "economia di mercato", ma lascia ai singoli stati la facoltà di stabilire i propri criteri. Bruxelles ne indica cinque: per essere un’economia di mercato un paese deve lasciare che le risorse economiche siano allocate dal mercato; rimuovere le barriere commerciali; rispettare i diritti di proprietà e la governance delle aziende; avere norme adeguate sulla concorrenza e i fallimenti; disporre di un settore finanziario aperto e trasparente. Per qualche anno Pechino si è data da fare per soddisfare questi requisiti e nel 2004 Bruxelles ha considerato rispettato il secondo criterio, cioè la rimozione delle barriere commerciali. Poi, nel 2012, i cinesi hanno abbandonato le consultazioni con l’Europa sullo status della loro economia, tralasciando l’obiettivo di centrare gli altri quattro criteri e limitandosi ad aspettare la scadenza del 2016.


«Quando la Cina è entrata nel Wto aveva l’intenzione di liberalizzare il mercato, ma poi non l’ha fatto. Negli ultimi anni abbiamo visto un peggioramento, una riconquista del mercato cinese da parte dello Stato», spiega Bernard O’Connor, responsabile degli uffici di Bruxelles dello studio legale italiano Nctm e docente della Statale di Milano, nonché uno degli esperti di commercio internazionale consultati dal Parlamento Europeo sulla questione. «In Cina lo Stato è saldamente in controllo di tutti i settori importanti del mercato: finanza, banche, energia, miniere, acciaio, telecomunicazioni, media – spiega O’Connor –. Inoltre c’è stata una intensificazione dei piani quinquennali attraverso cui il governo centrale esercita il controllo sull’economia. Nel dodicesimo piano, per il periodo 2011-2015, c’erano 71 programmi su come deve evolvere l’economia cinese, nel tredicesimo piano, per il 2012-2020, ce ne aspettiamo altrettanti».


In queste condizioni abbassare le barriere commerciali con la Cina significa lasciare che le imprese europee debbano cavarsela davanti alla concorrenza di rivali cinesi la cui principale forza è che semplicemente non possono fallire. La competizione tra europei e cinesi è resa ancora più complessa dal fatto che la strategia di investimenti di Pechino ha generato un’incredibile sovracapacità produttiva in molti settori (quello dell’acciaio, dove l’industria cinese è in grado di produrre 900 milioni di tonnellate l’anno ma al mercato interno ne bastano 500, è il più emblematico) e quindi deve premere per ottenere l’accesso ad altri mercati sui quali scaricare, anche sottocosto, i suoi eccessi produttivi. Per O’Connor, che ironizza sul "fantastico spettacolo" di Xi che parla di mercati aperti a Davos, c’è un equivoco di fondo: «Bisogna capire che per la Cina il libero mercato è solo uno strumento per sviluppare il potere dello Stato. Pechino è pro-business, non pro-market: il suo scopo non è creare un mercato con regole e normale concorrenza, ma costruire dei campioni industriali nazionali, ognuno dei quali deve diventare il più grande al mondo nel suo settore».

Se Pechino vuole essere il grande squalo bianco dell’oceano da cui nessuno può scappare, arginarla con le barriere commerciali è l’unica soluzione possibile. Dopo non avere ceduto sul riconoscimento dell’economia di mercato (nonostante ci fossero pressioni forti anche all’interno della Commissione) l’Europa a novembre ha avviato le procedure per aggiornare le sue regole riguardo al dumping e ai sussidi dei prodotti importati. Una delle idee della proposta della Commissione, punto di partenza per questo aggiornamento, è eliminare la lista delle economie non di mercato affidando alle associazioni industriali europee il compito di dimostrare le incongruenze dei prezzi praticati in un altro Stato. L’Italia non è affatto convinta e secondo O’Connor fa bene. «La proposta europea ha elementi positivi ed è abbastanza vaga da permetterci di potere vincere nella causa al Wto. Nello stesso tempo però la proposta è anche troppo vaga. Non si capisce con quale metodologia si può determinare il prezzo "corretto" in Cina… lascia spazio a molti abusi».

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