giovedì 26 ottobre 2017
L'arcivescovo di Cagliari parla di «percorso intenso», partito quattro anni fa «con la visita del Papa in Regione»
Arrigo Miglio (Boato)

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Non sembri strano che i cattolici denunciano. Monsignor Arrigo Miglio sorride se gli si chiede come mai, in un tempo così litigioso, anche i cattolici inizino a parlare di lavoro con una denuncia. «Non c’è nulla di violento, nulla di aggressivo, è una scelta di verità» ci dice l’arcivescovo di Cagliari. Ricordando che «è successo anche alle Settimane Sociali di Reggio Calabria e Torino, ma anche prima…».

Che tipo di denuncia fa la Chiesa?

Come dicevo, fa una scelta di verità. La denuncia dell’emergenza lavoro rientra nel nostro stile pastorale e infatti viene accolta bene dalla gente; anzi, diciamo pure con un generale consenso, specialmente quando si ode qualcuno dire ciò che nessuno dice. E si commenta: finalmente!

Quindi la denuncia ha un significato liberatorio?

Diciamo che la denuncia della Chiesa è libera. Questa, da sempre, è la sua caratteristica, perché è scevra da interessi e ritrosie. Semmai, il difficile viene dopo la denuncia: non ce lo nascondiamo neanche noi, ed infatti il Segretario generale della Cei l’ha sottolineato recentemente, che è difficile, anche dopo una denuncia coraggiosa, decidere di impegnarsi in prima persona. Oggi c’è un gran bisogno di cattolici che si impegnino nel campo sociale e politico, che si 'buttino'.

Come vi siete preparati a questa sfida della Settimana Sociale?

Noi abbiamo fatto un percorso intenso, come Chiesa di Cagliari e della Sardegna, verso la Settimana. Il vero punto di partenza è stato quattro anni fa, con la visita di papa Francesco, e si è realizzato attraverso impegnativi seminari in sei città diverse della Regione, che hanno coinvolto tutte le dieci diocesi e centinaia di esperti. A questo lavoro si è aggiunto quello della facoltà teologica di Cagliari, compresa una mostra, e ha preso la forma di una pubblicazione che sarà distribuita durante i lavori. Tale percorso ci ha permesso di andare oltre alla denuncia.

Arrivando dove?

Intanto, è importante lo spazio della preghiera. Ce l’ha insegnato papa Francesco, quattro anni fa, quando ha catalizzato la protesta dei disoccupati della piazza in una grande preghiera cui si è unita la gente.

Il popolo sardo crede?

C’è ancora un animus religioso abbastanza forte. Per questo si riesce ad affrontare l’emergenza anche con la forza della preghiera.

Le istituzioni preferiscono una Chiesa che denuncia o una Chiesa che prega?

Non è questa l’alternativa, ma, casomai, è quella tra una Chiesa attenta o una Chiesa che non vede. Spesso, sono proprio le istituzioni a chiederci aiuto: una comunità che prega per queste situazioni concrete viene guardata con molta attenzione anche dalle istituzioni. Il nostro contributo è guardato con rispetto e molto apprezzato.

Quali sono le piaghe sarde che denuncerete con questa Settimana?

La dispersione scolastica è la più alta in Italia, la formazione professionale ha bisogno di essere ricostruita, la disoccupazione giovanile è elevatissima, il problema del rapporto tra produzione e ambiente è tuttora aperto e poi c’è il nodo del difficile collegamento con il continente, che riguarda sia il turismo popolare che le merci…

Con quali conseguenze?

Molti sono poveri. Povertà vera. Fame. Solo nella città metropolitana di Cagliari trecentomila residenti - la Chiesa, attraverso vari enti, distribuisce 1.000 pasti a chi non ce la fa, ogni giorno. Uno ogni trecento… Eppure, siamo una Regione accogliente. Voglio dirlo, visto che abbiamo accolto diecimila richiedenti asilo in due anni. La sfida è integrare chi resta.

Dov’è il 'lavoro che vogliamo'?

Nella terra sarda, ad esempio. Produce beni preziosi, i nostri agricoltori e allevatori sono bravi, eppure l’80% dei prodotti che consumiamo vengono importati. Ripartiamo dall’agroalimentare, che è ancora figlio di un dio minore in Sardegna, per creare lavoro.

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