giovedì 14 febbraio 2019
Di Maio assicura che lo Stato entra per proteggere i lavoratori. Ma all'azienda servono ricavi più alti e rotte redditizie per giustificare una struttura così pesante. Le tante sfide del piano di Fs
Un Boeing 777 di Alitalia nell'hangar (foto Alitalia)

Un Boeing 777 di Alitalia nell'hangar (foto Alitalia)

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Il principale obiettivo del ritorno diretto dello Stato in Alitalia è proteggere gli interessi dell’Italia e dei lavoratori della ex compagnia di bandiera, ha spiegato Luigi Di Maio incontrando i sindacati al ministero dello Sviluppo economico. Il ministro ha anche confermato che il piano del governo prevede che la quota del ministero dell’Economia assieme a quella di Ferrovie dello Stato (a sua volta controllata del Tesoro) arrivi almeno al 50% delle azioni della futura Alitalia.

Il controllo pubblico è una delle poche certezze del terzo tentativo di rilancio di Alitalia dopo la privatizzazione del 2009. Il primo tentativo, quello della cordata italiana Cai, naufragò a causa di errori strategici in un contesto di crisi internazionale. Il secondo, quello che ha coinvolto gli arabi di Etihad, non ha dato migliori risultati ed è terminato quando il 24 aprile del 2017 i lavoratori hanno respinto il piano di ristrutturazione presentato dai manager. Perché il terzo tentativo funzioni occorre un piano industriale capace di rimettere la compagnia su una rotta di sostenibilità. A quel piano – inizialmente previsto per la fine di gennaio e ora atteso entro fine marzo – stanno lavorando i manager di Fs.

È un compito difficilissimo. Alitalia continua a bruciare cassa, anche se lo scorso anno grazie al lavoro dei commissari le perdite operative – cioè quelle che non considerano ammortamenti, interessi passivi e tasse – si sono dimezzate a 124 milioni di euro rispetto ai 312 del 2017. Preparare il piano è molto difficile per un problema di fondo: Alitalia ha una struttura aziendale pesante che per essere giustificata ha bisogno di ricavi sostanzialmente più elevati dei 3 miliardi di euro del 2018. In particolare deve crescere sulle rotte più redditizie, quelle a lungo raggio.

Ma per essere competitivi sui voli per le Americhe o l’Asia occorre avere un bacino di utenza adeguato, qualcosa che oggi hanno i grandi vettori europei come Lufthansa e Air France-Klm, ancora capaci di raccogliere i passeggeri in giro per l’Europa e canalizzarli verso voli per New York o Pechino. Nella relazione presentata dai commissari in Parlamento lo scorso aprile c’è un dato indicativo in questo senso: il rapporto tra passeggeri intercontinentali che partono o arrivano in Italia e i posti disponibili sui voli diretti tra l’Italia e quei paesi è del 162%, contro il 70% della Germania, il 74% della Francia o il 99% della Spagna. L’Italia, cioè, è ha pochi voli diretti a lungo raggio, e il suo mercato aereo intercontinentale è servito da compagnie straniere che utilizzano hub esteri. Significa che c’è spazio potenziale per crescere in questo ambito, ma occorre andarsela a giocare con i numeri uno del settore.

I due alleati industriali che si sono fatti avanti con Fs per partecipare al rilancio come soci di minoranza, la low cost easyJet e l’americana Delta Airlines, sono per molti versi compagnie compatibili con Alitalia. La prima, già socia di Air France-Klm con una quota del 9%, punta a una crescita dei voli transatlantici e quindi può portare in un’eventuale alleanza rotte americane e passeggeri. La seconda, low cost robusta resa anche più forte dalle difficoltà della rivale Ryanair, può contribuire con la sua competenza nel gestire con alta redditività le tratte brevi.

Il nodo, probabilmente, resterà comunque quello del costo del personale. Alitalia ha oggi circa 11mila dipendenti, di cui 1.480 in cassa integrazione e il costo del lavoro (601 milioni nel 2017) è circa un quinto dei costi operativi. È sugli esuberi che si sono andati a scontrare i tanti che hanno pensato di risollevare Alitalia negli ultimi anni e resta questa la maggiore incognita del terzo tentativo di rilancio. Il governo, a leggere le parole di Di Maio di ieri, ha già aperto alla possibilità di rifinanziare il Fondo Volo. Già nel decreto legge che ha introdotto reddito di cittadinanza e quota 100 l’esecutivo ha stabilito di portare da 3 a 5 euro a biglietto la tassa per i diritti di imbarco così da aumentare le risorse per il fondo previdenziale dei lavoratori del trasporto aereo, che garantisce ai lavoratori in cassa integrazione un reddito pari all’80% del salario.



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