giovedì 12 febbraio 2015
​Le proposte per superare il progetto del governo: limiti di mandato, regole di lista e "tetto massimo" per le quote. (Leonardo Becchetti)
La procura di Roma apre un'inchiesta

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Non nascondiamoci dietro un dito. La riforma delle banche popolari tocca uno dei punti più delicati del rapporto tra economia e democrazia. Stiamo di fatto decidendo se, in linea di principio e nei fatti, qualcuno con molti soldi (fatti non sappiamo come) può comprare sempre e comunque un intermediario finanziario (nato magari con intenti mutualistici, solidali, cooperativi, di servizio alle imprese del territorio) e trasformarlo in quello che vuole o se le comunità siano libere di darsi delle organizzazioni che perseguano quelle finalità e che competano sul mercato con altri tipi di impresa, lasciando alla democrazia e alle dinamiche di mercato (e non a un decreto governativo) decidere chi prevarrà. Vorremmo che gli aedi delle magnifiche sorti e progressive del risiko bancario, delle virtù del consolidamento (quando studi e rapporti dicono che oltre una dimensione media la crescita bancaria è solo un problema e porta al modello 'troppo grande per fallire') entrassero nel merito invece di citare elementi a supporto fumosi come il fatto che i provvedimenti sono da tempo nel cassetto o addirittura, come alcuni hanno fatto, di utilizzare come argomento quel 'fastidioso' arrivare di masse con pullman e panini alle assemblee. Non è solo un’annotazione di folklore, ma il segnale di un profondo atteggiamento di disprezzo verso la democrazia. Che vige nei tinelli dei condomini, e molto meno nei luoghi asettici e impersonali in cui abita la grande finanza e dove non ci si rende conto che pigiando un tasto sul computer si può rovinare la vita di centinaia di migliaia di persone. I due soli argomenti seri addotti sono quelli dello scarso ricambio delle classi dirigenti e della difficoltà di afflusso di capitali freschi. Sul primo, ci permettiamo di far notare che in alcune grandi spa esistono patti di sindacato che dalla notte dei tempi controllano con quote di minoranza grandi società. La questione si risolve con limiti di mandato per i vertici societari, centri di voto elettronico, regole sulle liste. Non c’è affatto bisogno di attaccare e cancellare il voto capitario. Sul secondo punto, basta alzare il tetto massimo di quota di capitale posseduta dal singolo socio (per esempio dall’1 al 3%) e si possono valutare con moltissima cautela premi di voto multiplo che scattano al superamento di possesso di soglie di quote di capitale. Facendo estrema attenzione ad evitare il rischio dicui abbiamo fatto cenno in apertura. Altrettanto importante sarebbe indurre il sistema del credito cooperativo a prendere con decisione la strada delle garanzie di rete, seguendo gli esempi austriaco e tedesco. La letteratura economica, la storia recente delle crisi bancarie e finanziarie, i pareri delle commissioni internazionali, i dati sui flussi di credito, la prassi in vigore in quasi tutti i Paesi del mondo muovono infatti tutti in direzione opposta all’abolizione del voto capitario. Il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro del 2013 ricorda che le banche una-persona- un-voto sono quelle che hanno prestato di più e si sono fatte meno sedurre dalle sirene del trading speculativo. I dati Cgia di Mestre ci ricordano che le banche popolari hanno prestato molto di più negli anni della crisi. Il rapporto Liikanen dei 'saggi' della Ue ha sottolineato i problemi di rischio sistemico che le grandi banche spa generano ribandendo l’importanza della diversità bancaria per la resilienza del sistema. Il 90% e più delle crisi bancarie e finanziarie dell’ultimo decennio (quasi tutte le banche fallite dopo il 2007, la crisi di Cipro, quella islandese e irlandese…) sono state originate da grandi spa e dal loro trading speculativo. Non è un caso pertanto che Francia, Germania e Regno Unito (non noi) abbiano risposto alla crisi ripristinando in forme diverse la Volcker rule (il divieto di trading proprietario delle banche commerciali) e non si sognano neanche lontanamente di modificare la forma societaria delle loro grandi banche cooperative (e così anche Olanda, Finlandia e quasi tutti i Paesi del mondo). Un modello da questo punto di vista è il Canada dove, già prima del 2007, il sistema di banche cooperative Desjardins ha conquistato (senza editti governativi) il 45% del mercato e dove è stabilito il divieto di trading proprietario. In Canada la crisi finanziaria non è mai arrivata. Invece qui da noi è come se un governo si accorgesse che un gran numero di incidenti deriva da guidatori di macchine di grossa cilindrata che si sentono piloti di formula uno e decidesse in risposta di obbligare i proprietari di utilitarie a comprare a loro volta macchine di grossa cilindrata. L’articolo 45 della Costituzione recita «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità». Il decreto sulle banche popolari (e che già traguarda alle banche di credito cooperativo, per ora in salvo) è incostituzionale non solo nella forma ma anche nella sostanza. Speriamo, verremmo poter dire che siamo certi, che il governo avrà il coraggio di aprire una seria discussione sul tema, evitando il ricatto del voto di fiducia e che non vorrà assumersi la responsabilità storica, dopo le belle parole spese sul Terzo Settore, di soffocare la democrazia economica italiana, senza contribuire in alcun modo a ridurre i rischi finanziari ed economici per il nostro Paese.
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