venerdì 5 luglio 2013
​Si chiude la fase diocesana della causa di beatificazione del cardinale vietnamita. Imprigionato dal regime comunista, passò 13 anni in carcere a Saigon celebrando l’Eucaristia di nascosto. Anche nel motto episcopale il forte richiamo al Vaticano II​​.
​​​​​​​​Speranza Van Thuân: tre motivi di gioia​​ di Gerolamo Fazzini
COMMENTA E CONDIVIDI
«Amava farsi chiamare 'vescovo Fran­cesco', anche dopo che papa Wojty­la lo creò cardinale, nel Concistoro del 21 febbraio 2001». La cifra del vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân, di cui oggi si chiude la fase diocesana del processo di beatifica­zione, si riassume proprio «nella semplicità assolu­ta », evidenzia Waldery Hilgeman, olandese, postu­latore della causa aperta neppure tre anni fa, il 22 ottobre 2010.
Nominato nel 1998 presidente del Pon­tificio Consiglio giustizia e pace da Giovanni Paolo II, appena nominato arcivescovo Van Thuân - fisico esile e sorriso aperto - ha affrontato prove durissi­me, «vivendo prigioniero a Saigon per tredici anni, dal 1975 al 1988, nove dei quali passati in isola­mento », ricorda il postulatore. Dato che non gli era stato permesso di portare in cel­la la Bibbia, il vescovo raccolse i pezzetti di carta a sua disposizione per assemblare una minuscola a­genda, su cui scrisse oltre 300 frasi del Vangelo; ce­lebrò la Messa sul palmo della mano, con tre gocce di vino e una d’acqua. Il vino se l’era procurato chie­dendone una bottiglietta ai suoi familiari, che com­presero subito la sua intenzione, «come medicina contro il mal di stomaco». Per conservare il Santis­simo usò anche la carta dei pacchetti di sigarette. Di notte, quando gli era possibile, organizzava in car­cere turni di adorazione davanti all’Eucaristia. Men­tre quando era in isolamento celebrava la Messa in­torno alle 3 del pomeriggio, l’ora di Gesù agoniz­zante sulla Croce, cantando in latino, francese e viet­namita: un comportamento che colpì diversi car­cerieri.
François Xavier era nato il 17 aprile 1928 a Huê, a­vendo molti martiri fra i suoi antenati prossimi: nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio di sua madre fu­rono bruciati nella chiesa parrocchiale, eccetto suo nonno, che studiava in Malesia. Gli avi paterni, in­vece, subirono persecuzio­ni tra il 1698 al 1885. Il ra­gazzo è cresciuto respiran­do una fede provata dal sa­crificio, testimoniata dai suoi familiari. Ordinato sa­cerdote nel 1953, si è lau­reato sei anni dopo a Ro­ma in diritto canonico. Tornato nella sua terra co­me professore e poi rettore del seminario, vicario generale e dal ’67 vescovo di Nha Trang, si è dedi­cato a rafforzare la presenza dei laici, dei giovani e dei consigli pastorali. «La sua azione ecclesiale è sempre stata caratteriz­zata dalla lungimiranza e ispirata dallo Spirito», sot­tolinea il postulatore, facendo notare che il presule «nelle sue lettere pastorali parlava di nuova evan­gelizzazione: testi di straordinaria attualità».
Nomi­nato arcivescovo coadiutore di Saigon da Paolo VI nel ’75, il suo motto episcopale era Gaudium et spes e il suo programma «La Chiesa nel mondo contem­poraneo », con uno stampo decisamente conciliare. Ma dopo pochi mesi, con l’av­vento del regime comunista venne arrestato - avendo ad­dosso solo la tonaca e il rosa­rio in tasca - e messo arbitra­riamente in carcere, senza pro­cesso né sentenza. L’accusa? La sua nomina ad arcivescovo fu interpretata come «complotto tra il Vaticano e gli imperiali­sti ». «Nell’isolamento, in una situa­zione drammatica, emerse la sua grande forza e la sua spiri­tualità profonda –, commenta Hilgeman –.
Comin­ciò a scrivere in segreto messaggi alla sua comunità, che furono provvidenzialmente copiati e diffusi: te­sti confluiti successivamente alla sua liberazione nel volume 'Il cammino della speranza'. Di notte e di nascosto, nella residenza obbligatoria a Giangxà, scrisse il suo secondo libro, intitolato 'Il cammino della speranza alla luce della Parola di Dio e del Con­cilio Vaticano II' e il terzo: 'I pellegrini del cammi­no della speranza'». La speranza ritorna in continuazione, come un ri­tornello scolpito nella carne. Non lo abbandona nep­pure quando viaggia su una nave insieme ad altri 1.500 detenuti affamati, o quando con altri 250 pri­gionieri varca la soglia del campo di rieducazione di Vinh-Quang. Con questo vissuto di «speranza sulla propria pelle, non stupisce che Giovanni Paolo II lo abbia messo alla guida del Pontificio Consiglio giu­stizia e pace», rimarca il postulatore.
Al collo porterà, fino alla morte sopraggiunta nel 2002 per un tumo­re, una piccola croce di legno: l’aveva intagliata nel­la prigione di Vinh Quang, chiedendo poi a un’altra guardia in un successivo penitenziario un pezzetto di filo elettrico. L’uomo pensò che il detenuto volesse suicidarsi, ma il presule gli spiegò che il filo serviva a preparare una catena per mettere al collo la sua cro­ce. La prepareranno insieme dopo tre giorni, con l’ausilio di un paio di pinze: resterà il segno di un Cal­vario concluso con la Risurrezione.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: