mercoledì 4 marzo 2020
L'arcivescovo: «Abbiamo sofferto per il divieto di celebrazioni. In occasioni difficili e dolorose come queste si misura anche un poco la qualità del servizio che offriamo a servizio del bene comune»
L'arcivescovo Cesare Nosiglia  in una foto d'archivio

L'arcivescovo Cesare Nosiglia in una foto d'archivio - Ansa

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Sui confini del contagio: e dunque con un’incertezza diversa e più difficile da valutare. Il Piemonte rimane ai margini dell’epidemia, almeno fino ad oggi. Ma ha dovuto ugualmente premunirsi e seguire i protocolli e le misure di prevenzione: troppo vicine sono le zone rosse della Lombardia occidentale, al di là del Ticino. Ora ci si prepara a una seconda settimana di vigilanza: le scuole rimarranno chiuse, mentre altre attività pastorali ordinarie potranno riprendere seguendo le norme di profilassi stabilite dal Governo nazionale e riprese dalla Regione. Ma ancora sabato 29 febbraio nel pomeriggio, quando il precedente decreto era in scadenza, non si sapeva che cosa si sarebbe dovuto fare, soprattutto per quanto riguardava le chiese e la celebrazione delle Messe domenicali. Riprendiamo la riflessione con monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, amministratore apostolico di Susa e presidente della Conferenza episcopale piemontese, che si riunisce oggi e domani ad Alba.

Comunicazioni difficili, confusione e incertezza fino all’ultimo momento. L’emergenza virus sembra aver rivelato anche una difficoltà nel far passare i messaggi in modo efficace.
Si, la comunicazione ha aggravato molto lo stato d’animo di timore nella gente… Capisco che i media debbono offrire a tutti una informazione vera e sincera ma occorre anche mostrare che di fronte a queste situazioni non bisogna suscitare allarmismi ma corresponsabilità e ulteriore spirito di unità e solidarietà reciproca perché solo così affronteremo efficacemente e con frutto le emergenze. Già in questi giorni ho potuto verificare l’impegno positivo da parte di tanto personale medico e paramedico, religioso e anche istituzionale. Persone che si prodigano con grande dedizione, competenza e sacrificio a sostenere i malati e i tanti preoccupati. Questo impegno è il miglior segno di speranza che possiamo offrirci tutti a vicenda. E poi occorre un’attenzione particolare verso gli anziani soli, che rischiano di rimanere ancor più isolati, in questo clima di “malattia”.

C’è stato un momento unico, la scorsa settimana: l’arcivescovo, nel giorno del digiuno delle Ceneri, è andato a pregare la Madonna della Salute. E il sindaco di Torino, Chiara Appendino, ha voluto essere presente con la fascia tricolore, per sottolineare la partecipazione della città intera.
Quando ci sono situazioni di forte gravità che assillano una intera città e diocesi la preghiera è uno dei più efficaci mezzi per sostenere la speranza e la fiducia nei cittadini e fedeli perché unisce tutti nel rivolgere al Signore tramite la Vergine Maria una forte e serena invocazione di aiuto ma sostiene anche un impegno per farvi fronte insieme. Cementa dunque la comunione e la fede nell’invito di Gesù: «Bussate e vi sarà aperto, chiedete e riceverete perché il vostro Padre che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano». È questo lo spirito con cui siamo chiamati ad affrontare anche questa prova. Mi ha fatto molto riflettere, e bene sperare, anche un’altra positiva constatazione. Malgrado l’incertezza sulle celebrazioni delle Messe festive, domenica mattina ci siamo ritrovati con tutta la nostra gente. La frequenza non era diminuita, né in città né nelle chiese di periferia. Nei paesi dell’Alta Valle di Susa dove avevo in programma due celebrazioni, poi, c’era anche più gente del solito. E non erano lì per curiosità del vescovo, ma perché sentivano quel momento come occasione di unità della comunità.

La Chiesa torinese, come in gran parte del Piemonte, ha voluto dare un segno esplicito di lealtà nei confronti delle disposizioni delle autorità, anche a prezzo di rinunciare a momenti importanti di ritrovo e di attività pastorale. Quali indicazioni ci vengono per il futuro?
Ne viene, mi pare, un messaggio chiaro e forte: la Chiesa vive e partecipa alle sofferenze e difficoltà di tutta la gente; sa essere veramente, come dice papa Francesco, un ospedale da campo che non pensa solo a se stessa ma al suo compito di servizio soprattutto verso i più poveri, malati e bisognosi di aiuto e sostegno umano e spirituale insieme. Abbiamo sofferto per il divieto di celebrazioni che abbiamo però rispettato. In occasioni difficili e anche dolorose come queste si misura anche un poco la qualità del servizio che tutti - preti, religiosi, laici - offriamo alla società intera a servizio del bene comune.

La paura si è presentata come protagonista, in tanti atteggiamenti e comportamenti dei cittadini. È vero? Che cosa ci insegna questa vicenda, sotto il profilo della comunicazione e non solo?
C’è stata paura, e anche diffidenza reciproca. Perché l’“altro”, chiunque altro diventava un potenziale pericolo, vero o immaginario. Ci sono due riflessioni obbligate. Una riguarda le nostre sicurezze circa i progressi che abbiamo raggiunto. Troppe volte diamo per scontato che la vita sia diventata facile, che tutto quel che vogliamo ci sia dovuto, o si possa comprare in cambio di denaro. Momenti come questi ci dimostrano che non è così. La seconda riflessione, però, è sicuramente positiva e ricca di speranza: la dedizione, l’impegno, l’altruismo e la solidarietà che abbiamo vissuto sono davvero un patrimonio comune, da non sprecare.


«Abbiamo sofferto per il divieto di celebrazioni che abbiamo però rispettato. In occasioni difficili e dolorose come queste si misura anche un poco la qualità del servizio che tutti - preti, religiosi, laici - offriamo alla società a servizio del bene comune»

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