martedì 30 luglio 2013
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​Il Cardinale ha consumato l’ultima porzione di miglio, per dir così, diversi giorni fa, nella stanzetta del Santa Teresa, la sua piccola patria domestica, pastorale, interiore, dove ogni giorno si divideva con i prediletti, i privi di tutto tranne del poco che basta per sopravvivere. Come gli uccelli, come lui.Una volta gli chiesi il segreto della sua inestinguibile anzianità e lui mi elencò la dieta, quattro parole in croce. «Serve poco a un prete, se è secco come me».Soltanto l’Abbé Pierre fu più magro del cardinale Tonini, che come si sa era magrissimo. Neppure Eduardo, che pure aveva quell’aria da trafitto, lo ricordo più scavato di lui.Quella mattina, accanto a una colonna del Bernini, bianca e possente, mi parve piccolo e dritto come un chiodo. Era lì per condurci dal Papa. Gli avremmo tenuto compagnia durante la visita che Karol Wojtyla aveva voluto dedicare a lui, ai parenti, agli amici emiliani-romagnoli più vicini, fuori d’ogni ufficialità, per festeggiare il neo principe della Chiesa, che celava sotto la veste nera il "pipistrello" cremisi impostogli dalla sua nuova dignità ecclesiastica.Di lì a poco eravamo nella sala dell’udienza, disposti subito a semicerchio. Tutto si svolgeva con grande affabilità, in attesa di un evento dopotutto non rituale. Il cardinale, per nulla febbrile, aiutava i commessi a sistemarci. Suggerì soltanto: «I giornalisti li metterei qui», e indicò un punto.Un breve fruscio di tonache con l’arretrare veloce di fotografi tra lampi azzurri e qualche sgomitamento ed ecco che in un improvviso silenzio il Papa fu lì, sorridente, appoggiato appena al bastone.Monsignor Monduzzi presentava gli invitati e Karol Wojtyla aveva una frase per tutti; un mucchietto di parole improvvisate suscitavano ogni volta una evidente lusinga. Quando arrivò davanti a Biagi, il cardinale, fingendo una lieve preoccupazione, disse al Papa: «Abbiamo combinato insieme alcune cose in televisione... e forse ricorderà, Santo Padre, i nostri Dieci Comandamenti...». Wojtyla stette al gioco e fece: «Li avete almeno trattati bene?». Fu Biagi a rispondere: «Santità, io non sono del ramo, ma con me c’era il monsignore e abbiamo fatto del nostro meglio». Allora il Papa venne allo scoperto: «So, so, e la ringrazio a nome di Mosè!». Ci fu un mormorio divertito, Biagi sorrise, allargò le braccia chinando leggermente la testa come per ritrarsi dall’elogio.Venne il mio turno e il cardinale, che aveva già fama di massmediologo, ricordò al Papa altre cose sempre della Tv, e Wojtyla mi guardava assentendo cortesemente. Si animò quando seppe che anch’io ero romagnolo. «Ma allora sono davvero circondato da questa brava gente!», esclamò, aggiungendo che Silvestrini, Monduzzi e adesso Tonini erano già «un bel trio». Fu allora che con un filo di complicità mi confidò: «Sa che qualche volta ho cantato Romagna mia?», e cominciò a cantilenare sottovoce, infilandole alla perfezione, le prime parole. S’interruppe subito, con un divertito soprassalto: «Devo smettere, Monduzzi mi fa rigare dritto! È molto autoritario…».Quando fummo di nuovo nella piazza c’erano un sole, una luce, un tepore che sembravano fatti apposta per quella mattina. Andandocene pensavo a quel «piccolo prete», come Biagi lo chiamerà, sul Corriere, in un pezzo di quelli che vengono subito bene perché, dietro, c’è una storia vera. Il cardinale mi aveva appena detto: «Sì, credo che mi lasceranno a Ravenna, ho in sospeso tante cose!». Stasera, pensai, dormirà nella stanza linda e disadorna del Santa Teresa, dopo aver chiesto, ancora sul portone, come stavano, uno per uno, i vecchi infermi e i bimbi disabili.Al funerale parteciperà tantissima gente. «È proprio vero, bisogna abituarsi a vivere, non solo a esistere, con tutti», ripeteva. Era anche un’idea economico-sociale, che non si ispirava solo al Vangelo: era quella dell’altro. «Già nel 2020 l’Italia avrà bisogno di 8 milioni e mezzo di uomini – disse una volta – e le statistiche assicurano che tra neppure un secolo cinque regioni dovranno essere ripopolate: Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Friuli. Ripopolate da chi se non dal mondo a noi più contiguo, quello prevalentemente musulmano?». Poi citava una provocazione dello storico Fernand Braudel, che si era già espresso epicamente: «L’Africa ha una sola strada, invadere l’Europa. E l’Europa un solo destino: accoglierla». «Brutale, ma chiaro, e forse anche un po’ profetico! – aveva commentato il monsignore. – Molti disastri, nella storia umana, cominciano dall’assenza di relazione», era stata la diagnosi.Un giorno, per la Tv, gli farò delle domande.Lei accetta che, interpretando un cristianesimo radicale, edificante all’estremo, possa dirsi che la perfezione si conquista attraverso la sofferenza?«La sofferenza è un segno: soltanto gli esseri che hanno la capacità di soffrire sono creature completamente viventi. Gli antichi dicevano che hanno un’anima, insomma. Tanto è vero che il primato dell’uomo sta proprio nell’essere in grado di soffrire più di ogni altra forma di vita, perché la sofferenza presuppone un essere che non è totalmente compiuto, ha ancora dei bisogni interiori, cerca dei valori! È il segno di una dignità proporzionale ai beni in cui ciascuno ripone il proprio valore».Ricorda quando affrontò, per la prima volta, questo argomento?«Mio padre diceva: "Ragazzi, un pezzo di pane, volersi bene, la coscienza netta". Quando mi sono accorto di avere un gran desiderio d’imparare, perché volevo diventare prete, allora i miei hanno consentito che andassi a scuola. Significava fare 7 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, tutti a piedi. Non si avvertiva nessuna sofferenza, si era spinti da un desiderio grande, da una speranza totale. Ecco perché penso e ripenso ai bambini che ho incontrato in Africa: perché li ho visti andare a scuola, ma senza libri, solo con un quaderno. Un quaderno costa due giornate di lavoro del padre… Chi ha 4 o 5 figli può mandarne a scuola uno solo. Anche per questo si creano le condizioni del dolore».Si accusa il cattolicesimo di avere tollerato, talvolta addirittura favorito, una sorta di dolorismo…«Nelle sue vere matrici il cattolicesimo ha sempre detto, chiaramente, che non è salvifica la sofferenza; è la grazia che essa produce a darci qualcosa di importante. Certo, bisogna distinguere: la sofferenza non è sempre il dolore del corpo, non di rado assai più atroce, è anche patire per un bene che ci manca, in cui abbiamo riposto le nostre speranze, fondato il nostro valore. Un modo per vincere questa sofferenza è scoprire che l’altro diventa la misura del tuo bene».Parlava con questa semplicità, lavorando giorno e notte per le cose difficili. «Bisogna diffondere la conoscenza: primo presidio, e in seguito unico farmaco, per gli attardati, per chi ha poche parole…». Aveva accolto la modernità della comunicazione come un bene primario di tutti, per tutti. Ripeteva che don Milani, nella scuolina di Barbiana, insegnava ai figli dei poveri cento parole: «Per difendersi da chi ne sapeva mille, centomila, e dunque bisognava che quei ragazzi sapessero, sì, cos’è il catechismo, ma anche come va letto un contratto…».È stato tra i primi comunicatori di un "verbo" nuovo, colmo di risorse e d’immaginazione, ma anche di illusioni e di rischi. Aveva imparato quasi alla perfezione tre lingue: inglese, francese e tedesco. Si aggiornava, quotidianamente, su libri e giornali, aprendo anche all’ambito religioso nuove, straordinarie opportunità, come quella di tenere in onore le parole «tu sei quel che sai». Quanti lo hanno chiamato fino a ieri don Ersilio furono i primi a capirlo.<+copyright>
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