sabato 1 marzo 2014
​​Il vescovo di Albano che lo accolse a Castale Gandolfo racconta l'emozione di quei giorni, "Lo paragonerei a un moderno Mosé alla guida del suo popolo".
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Benedetto XVI come un novello Mosé. «Ci ricorda che la Chiesa si può servire non solo con il governo, ma anche con la preghiera di intercessione». Benedetto XVI maestro anche al momento della rinuncia. «Alla nostra società giovanilista insegna il valore e la dignità della vecchiaia». Benedetto XVI come il Papa dell’essenziale: «Ha puntato al cuore del cristianesimo: l’incontro personale con Cristo da cui scaturisce la vera gioia. È questa la sua eredità». A un anno esatto dalla fine del pontificato di Joseph Ratzinger, il vescovo di Albano, Marcello Semeraro, tratteggia la figura del primo Pontefice dimissionario per motivi di età. Il presule è stato testimone oculare di quei momenti storici (Castel Gandolfo è infatti nel territorio della sua diocesi) e ora li ripercorre anche alla luce di quanto è successo in questi dodici mesi.Che cosa ha pensato quando si è chiuso quel portone?Ho avuto il privilegio - emotivamente e spiritualmente eccezionale - di accogliere Benedetto XVI quando è arrivato a Castel Gandolfo. È giunto che era ancora il Papa e ho potuto avvicinarlo e parlargli, notando come, a fronte della mia emozione, in lui prevaleva la serenità. Ha avuto un solo momento di commozione, durante il discorso dal balcone, ma era comprensibile. Poi, quando si è chiuso il portone, ero nell’atrio del Palazzo. In quel momento ho pensato che avremmo dovuto riflettere molto per comprendere a pieno il gesto della rinuncia e integrarlo nella vita della Chiesa.E a distanza di un anno come guarda a quella decisione?Anche in relazione agli ultimi avvenimenti - mi riferisco alla presenza di Benedetto XVI al Concistoro per i nuovi cardinali, alla sua partecipazione alla benedizione della statua dell’Arcangelo Michele nei Giardini vaticani e anche al fatto che ha cominciato a ricevere in forma privata alcune persone - comincio a capire che questa realtà sta entrando nella vita della Chiesa come un seme fecondo, simile a quello che nelle nostre diocesi si sperimenta con la presenza del vescovo emerito (per me ad esempio è un’esperienza abituale). In sostanza, ciò che poteva essere avvertito come un elemento di disturbo (lo abbiamo letto anche in questi giorni sulla stampa) sta cominciando a diventare vita normale. Nella consapevolezza che, pur nel succedersi dei Papi, chi guida la Chiesa e ne è il capo è Cristo. In sostanza qual è il messaggio che Benedetto XVI ha voluto darci con il gesto storico?Innanzitutto sgombriamo il campo dalle dietrologie. Benedetto del resto lo ha ribadito anche nei giorni scorsi. L’unica motivazione è quella che lega la rinuncia all’indebolimento delle capacità fisiche. Questa la considero, soprattutto nel nostro mondo occidentale, una salutare provocazione. In una società ammalata di giovanilismo, che tenta di camuffare in tutti i modi il naturale declino delle energie, un Papa che pubblicamente riconosce la sua inadeguatezza da questo punto di vista compie un gesto anche grandemente educativo. Inoltre egli mostra l’importanza della preghiera. Sotto questo profilo Benedetto da un lato mi ricorda Santa Teresa di Lisieux, che aveva scoperto come il suo posto fosse di stare nel cuore della Chiesa; dall’altro è simile a Mosé che quando non può più guidare la battaglia, intercede con la braccia alzate per il suo popolo.Qual è l’eredità maggiore del pontificato di Benedetto XVI? Fin dalla sua prima enciclica egli ha ripetuto che la fede sgorga dall’incontro con Cristo. Noi crediamo in una persona che ci ama e che ci ha salvato. Se facciamo attenzione, è lo stesso tema al quale papa Francesco ci riaggancia non soltanto nella Lumen fidei, che è dichiaratamente ratzingeriana, ma anche nella Evangelii gaudium. La gioia sorge nel cuore del credente perché ha incontrato Cristo. E questo tema è il punto di contatto tra due pontificati che vedono protagonisti due uomini diversi per origini, storia personale, formazione culturale, esperienza pastorale, ma che sono uniti nell’amore a Cristo e nel servizio alla Chiesa.In qualcuno si sta affacciando il rammarico per non aver capito Benedetto XVI fino in fondo.È proprio così, ma è destino dei padri essere meglio compresi quando hanno compiuto del tutto la loro missione. Un padre non opera per ottenere un consenso immediato e la sua affettività, a differenza di quella materna, si rivela pienamente solo quando si è compiuta. Direi che questa dinamica familiare può essere applicata per analogia anche nella dimensione spirituale e pastorale che è la vita della Chiesa e in special modo al pontificato di Benedetto XVI. Dunque abbiamo molti motivi per dirgli grazie.Di sicuro. E innanzitutto dobbiamo dirglielo per aver governato la Chiesa servendo la verità. E di averlo fatto con grande mitezza e umiltà di cuore. E qui ritorna l’analogia con Mosè, di cui la Bibbia dice che era l’uomo più mite e umile. Eppure ha guidato il popolo in un momento decisivo della sua storia. Poi ha lasciato a Giosuè, che tra l’altro gli subentra quando è ancora vivo. Io posso testimoniarlo. Nel rapporto con papa Benedetto, oltre alla lucidità e profondità della dottrina (che tra l’altro già conoscevo), ho sperimentato la sua delicatezza, mitezza ed umiltà.
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