mercoledì 29 maggio 2019
La data del 29 maggio è stata scelta perché è quella della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1920. Papa Montini definì il prete «Atleta dello spirito». Ecco come ne parlava
Giovanni Battista Montini nel 1923 in Polonia, nella nunziatura apostolica a Varsavia (Istituto Paolo VI)

Giovanni Battista Montini nel 1923 in Polonia, nella nunziatura apostolica a Varsavia (Istituto Paolo VI)

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Un’immagine per definire la vocazione e il ministero del sacerdote? «Atleti dello spirito». Una metafora per descrivere la vita sacerdotale? «Dobbiamo mettere le nostre anime in assetto di ginnastica spirituale, di alacrità, di agilità». Potrà sorprendere, ma ad esprimersi così è Giovanni Battista Montini, sì il futuro Paolo VI, quando era ancora arcivescovo di Milano. E le sue parole tornano più che mai di attualità nel giorno della prima memoria liturgica dopo la canonizzazione (14 ottobre 2018). Per il santo Papa bresciano, infatti, la data non coincide con quella della morte (come vorrebbe la regola generale) dato che quella data è il 6 agosto, festa della Trasfigurazione. È stato dunque scelto il 29 maggio, giorno della sua ordinazione presbiterale, avvenuta nel 1920. E dunque si può dire che i sacerdoti di tutto il mondo hanno da oggi un santo in più in Paradiso, dato che la santità Paolo VI è consistita nel vivere in massimo grado «la sua vocazione come sacerdote, vescovo e Sommo Pontefice», come scrive il prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti, cardinale Robert Sarah.

In un tempo in cui - sono parole di papa Francesco all’Assemblea dei vescovi italiani, lo scorso 20 maggio - «i nostri sacerdoti si sentono continuamente sotto attacco mediatico e spesso ridicolizzati oppure condannati a causa di alcuni errori o reati di alcuni loro colleghi» questa prima memoria liturgica può essere lo spunto per rinfrancare lo spirito alla scuola della santità di papa Montini. È questo anche l’intenzione con cui padre Leonardo Sapienza, Reggente della Prefettura della Casa Pontificia e studioso di Paolo VI, ha dato alla stampe un fascicolo che riproduce un discorso del cardinale Montini ai sacerdoti dei vicariati di Varese, il 1° dicembre 1960. «Bisogna camminare come frecce verso il termine che ci è prefisso – annota il futuro Paolo VI –. È a guardar bene una specie di contraddizione in termini un sacerdote fiacco di anima di corpo, un sacerdote dormiente, afflosciato, senza vibrazioni, che ha un’atonia spirituale cronica e magari progressiva».

Colpisce l’uso delle metafore sportive, che ritroviamo an che in un altro passo. «La vocazione sacerdotale è una chiamata ad una vita tesa, ad una vita continuamente aspirante, che non si piega mai su se stessa, che non si siede mai lungo il cammino, ma che affretta continuamente il suo passo; e se è stanco lo rinfranca; e se zoppica lo fortifica; e se si attarda lo stimola».

Il sacerdozio, dunque, per Montini è «una esigenza di fervore». «Abbiamo il dovere di mantenerci fervorosi, anche per rendere valida la nostra missione», spiega con riferimenti sia a san Paolo («Io cerco di prendere Cristo, da cui sono stato preso»), sia con una citazione del poeta latino Orazio: «Si vis me flere, flendum est primum ipsi tibi» (Mi vuoi far piangere? Prima piangi tu). «E cioè – spiega l’allora porporato – vuoi comunicare a me i tuoi sentimenti? Prima vedi di viverli tu. Altrimenti, se tu mi predichi la carità, il fervore, la virtù, e non le vivi, io sento che c’è il vuoto».

Da dove attingeva san Paolo VI questo fervore? Il suo segreto era la celebrazione dell’Eucaristia. In alcuni appunti per esercizi spirituali a Montecassino, già il giovane don Giovanni Battista, nel 1931 annotava la necessità dell’«immolazione della propria vita dovunque», indicandola come «la Messa nella vita». Non stupisce perciò che parlando ai sacerdoti varesini, circa 30 anni dopo, egli metta in guardia proprio da una celebrazione distratta, abitudinaria. «Noi potremo celebrare la Messa osservando tutte le rubriche e crediamo di averla detta bene, e non abbiamo forse dato un pensiero, un solo pensiero al Cristo presente, al grande miracolo che si è verificato nelle nostre mani. Cristo – aggiunge – ha sanguinato nelle mie mani. Cristo è morto davanti a me. E io stavo pensando… che so io a tutte quelle cose che dovevo fare prima e alle vanità del giornale che avevo appena letto e così via».

Ecco perché nel discorso del 1960 egli indica con chiarezza i pericoli che fiaccano gli atleti dello spirito. Soprattutto «lo scetticismo» di «uno spirito disintegrato»: «Anime di sacerdoti sfiduciate, esaurite, consumate dall’esperienza». Ma poi indica anche i rimedi. Prima tra tutti la meraviglia. «Vi raccomando la meraviglia, lo stupore», esorta. E sembra di sentire la voce di papa Francesco, che non a caso a Paolo VI attinge a piene mani nel suo magistero. E poi «il saper godere di Dio», cioè abbandonarsi come figli nelle sue mani. «Sarà anche un violino vecchio questo nostro cuore; ma saprà tirar fuori ancora un accenno di gioia, di sentimento, di commozione davanti all’Eucaristia, davanti alla Madonna, davanti a qualche mistero…».

Torna così nella prima memoria liturgica dopo la canonizzazione l’esortazione fondamentale di san Paolo VI ai sacerdoti di ogni tempo e di ogni latitudine: «Tener viva dentro di sé questa fiamma di autenticità sacerdotale». Che è poi - secondo padre Sapienza - l’ingrediente fondamentale del suo «esperimento totale di santità». Un esperimento pienamente riuscito.

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