venerdì 15 febbraio 2013
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Quando descrive i semi gettati da Benedetto XVI nei rapporti fra ebrei e cristiani, il presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia, Elia Enrico Richetti, sembra quasi tracciare un parallelo con il carattere discreto del Papa. «Sono stati otto anni segnati da un incremento del dialogo e delle occasioni di incontro – spiega –. E hanno rivelato la forte volontà del Papa di puntare sull’approfondimento e sull’interiorità. Due dimensioni che sono state privilegiate rispetto alla visibilità e all’eco mediatica. Certo, non sono mancate alcune occasioni in cui, come rabbini italiani, abbiamo ritenuto di rallentare il percorso per avere chiarimenti in merito a posizioni che sembravano risultare dall’atteggiamento del Papa: mi riferisco alla riformulazione della preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo e al processo per la beatificazione di Pio XII».Fin dall’inizio del suo ministero, Benedetto XVI ha manifestato amicizia verso il popolo dell’Alleanza. Nel suo primo viaggio all’estero, in Germania, ha visitato la Sinagoga di Colonia dove ha affermato che le differenze non vanno «minimizzate».Una sottolineatura significativa. Le differenze – anche fra mondo ebraico e cristiano – non devono essere annullate e non possono passare sotto silenzio. Ma vanno affermate come tratto di arricchimento reciproco.Il Papa ha indicato nei testi sacri il principale punto d’incontro. Lo dimostra anche la presenza del rabbino capo di Haifa, Shear Yashuv Cohen, al Sinodo dei vescovi del 2008 per parlare delle Scritture.Una scelta che mi ha toccato in prima persona. Perché lui è stato il mio maestro. I suoi studi mostrano come la Scrittura sia elemento unificatore dell’etica globale. Ed effettivamente sono convinto che i testi sacri costituiscano il cuore del patrimonio spirituale di ebrei e cristiani.Nella visita alla Sinagoga di Roma, nel 2010, Benedetto XVI ha proposto il Decalogo come «stella polare» comune.È stata un’intuizione feconda che, ad esempio, in Italia ha portato frutti attraverso la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che si celebra ogni 17 gennaio. Anche se in un’ottica strettamente normativa le Dieci Parole sono rivolte in modo precipuo al popolo ebraico, illuminano e guidano l’intera comunità cristiana. Del resto sono punto di intersezione fra la dimensione verticale e quella orizzontale della vita di ogni uomo e donna.Più volte è giunto da Benedetto XVI l’invito a ebrei e cristiani di testimoniare la bontà di Dio in un mondo che rischia di cancellare ogni prospettiva trascendente. Come attuare questa sfida?Fin dal primo istante che il Papa ha formulato questo concetto, mi è venuto in mente quel versetto dei Salmi che dice: «Assaggiate e vedete che il Signore è buono». Si tratta di un richiamo a far conoscere l’unico Dio senza il quale l’esistenza perde di rilevanza.Nel pontificato ratzingeriano è emersa la condivisa preoccupazione di fronte al relativismo etico, come è scaturito anche dai lavori della Commissione mista per il dialogo cattolico-ebraico.La dignità della persona e le questioni etiche vanno affrontate guardando alla Rivelazione. Su questi temi la collaborazione è possibile. Però va tenuto conto che si possono presentare posizioni differenti. Questo, ben lungi dal contribuire al relativismo, serve ad ampliare la possibilità di risposta delle due fedi di fronte al mondo contemporaneo.Tema caro a Benedetto XVI è la purificazione della memoria. Più volte il Papa ha condannato l’antisemitismo.Parole che sono state sempre accolte con benevolenza. Il Papa che si è definito «figlio del popolo tedesco» ha tenuto a evidenziare come l’antiebraismo porti la persona al di fuori del consorzio umano. E in ambito religioso non può trovare alcuna forma di giustificazione.In questa prospettiva si inserisce la visita nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, nel 2006, luogo simbolo della Shoah.Della sua riflessione mi piace citare quella che è la domanda dei credenti di fronte a una violenza così atroce: ossia, la presenza o l’assenza di Dio in quel frangente. Il dilemma infinito della giustizia divina è molto dibattuto nell’ebraismo: fin dai tempi di Mosè, ci dice la tradizione.A Gerusalemme, nel mausoleo di Yad Vashem, ha esortato a «non dimenticare». E nella Sinagoga di Roma ha ricordato le «mancanze» di alcuni «figli» della ChiesaGià la presa di coscienza di quanto accaduto è fondamentale. Ed è un baluardo per evitare di ricadere negli errori. L’imperativo di non dimenticare è ben conosciuto dal mondo ebraico perché già presente nel Pentateuco. Ma il divieto di dimenticare il male che si è subìto non rimanda alla vendetta bensì rappresenta un monito e un insegnamento. Aggiungerei che ci deve portare a un impegno comune per la difesa della diversità.Davanti al Muro occidentale di Gerusalemme il Papa ha invocato la pace.Le nostre due fedi sono chiamate a dimostrare con i fatti che le differenze religiose non possono e non devono tradursi in macchine di odio ma in volani per costruire la casa comune.Il Papa sottolinea che la fiducia è componente essenziale per il dialogo. Come è stata alimentata in questi otto anni?Benedetto XVI l’ha radicata con il suo pensiero e i suoi gesti. E ha chiesto alla Chiesa di trovare elementi di consonanza col mondo ebraico.Come proseguirà questo percorso?Vorrei sperare nella continuità. Perché già vediamo segni concreti. E a Benedetto XVI auguro di poter godere, nel suo riposo, di quell’approfondimento spirituale nella preghiera e nello studio che ha dichiarato di volere cercare.
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