mercoledì 7 maggio 2014
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«Il tema è que­sto: bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti… Vi abbiamo fatto tribolare, per­ché vi abbiamo imposto come canone primo la imi­tazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zam­pillanti di mille idee e di mille novità. Noi - vi si dice­va - abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Vi ab­biamo talvolta messo una cappa di piombo addos­so, possiamo dirlo; perdonateci … Siamo ricorsi ai surrogati, all’oleografia, all’opera d’arte di pochi pre­gi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate … Rifacciamo la pace? Quest’oggi? Qui? Vogliamo ri­tornare amici? Il Papa ridiventa ancora l’amico degli artisti?…». Così Paolo VI, nel discorso - non era una lettera, come spesso si ripete, quella arrivò poi il 18 ottobre 1975 - rivolto agli artisti nella Cappella Sisti­na, il 7 maggio 1964. Parole scaturite durante un’ini­ziativa suggeritagli dal segretario monsignor Pasquale Macchi, da sempre suo trait d’union con gli «opera­tori della bellezza», al fine di ristabilire, esaltandolo, il rapporto fra la Chiesa e gli artisti. Uno dei «Gesti pro­fetici di Paolo VI», come tecita nel titolo del suo vo­lume edito da Ancora monsignor Ettore Malnati, a sua volta assai vicino e a lungo a monsignor Macchi in questo 'mondo' pieno anche di amici. È passato e­sattamente mezzo secolo da quel 7 maggio, ma sa­rebbe grave dimenticare quelle parole, tanto sem­brano ancora attuali nella potenza di un messaggio, improvvisato nella sua forma, ma certamente medi­tato a lungo, ed esito di un impegno antico a favore di pittori, scultori, architetti, musicisti, scrittori, ben palesato già da arcivescovo di Milano (la Milano di Brera, di Villa Clerici, della Scuola del Beato Angeli­co …). Ricordare quelle parole, senza dimenticare il contesto di allora, assai rilevante per la riforma litur­gica, significa continuare a credere come ricordano all’Istituto Paolo VI di Concesio «nella spinta propul­siva generata dall’atto creativo, espressione eletta del trascendente, incarnazione della presenza divina sul­la Terra». «Negli scritti montiniani – precisano all’I­stituto sorto nel paese natale di Montini – il costan­te riferimento alla bellezza, quale 'splendore di ve­rità', è da intendersi non come meta fine a se stessa, concetto astratto e ricerca della perfezione formale, ma quale partecipazione del sensibile alla creazione divina; atto che, al di là delle scelte personali di stile e tecnica, è prova di un cammino responsabile, te­stimonianza di una ricerca dentro la verità». E non a caso nell’Istituto Paolo VI, l’Associazione Arte e Spi­ritualità si trova affidato il cospicuo patrimonio di o­pere affidatole dall’Opera per l’educazione cristiana, proprietario della collezione d’arte del XX secolo rac­colta da Montini negli anni dell’episcopato e del pa­pato e arricchita successivamente da donazioni (set­temila opere, molte di assoluti protagonisti del ’900). In realtà Paolo VI desiderava che il bello potesse co­stituire motivo di gaudio non solo per i cultori del-­l’arte, ma per l’intero popolo di Dio. Agli artisti, il 7 maggio di cinquant’anni fa, Paolo VI chiede perdo­no per la mortificazione della loro creatività da par­te di tanti uomini di Chiesa, consapevole che anche grazie alla bellezza l’uomo ritorna con il pensiero a Dio. Non solo: il primo Papa del pieno confronto con la modernità, guarda con attenzione soprattutto al ge­nio del suo tempo: preceduto - in questo - nella com­prensione riservata da Giovanni XXIII allo scultore Giacomo Manzù e seguito dai successori (da ricor­dare qui almeno la Lettera agli artisti di Giovanni Pao­lo II nel 2000 e l’incontro di Benedetto XVI con i «cu­stodi della bellezza» promosso dal cardinale Gian­franco Ravasi il 21 novembre 2009). «Anche l’arte mo­derna, segnata dai drammi e dalle speranze del XX secolo, deve poter parlare dei misteri cristiani, era questo il suo pensiero», ricorda monsignor Malnati. Che aggiunge: «Con questo intento fece ristruttura­re la cappella privata dell’appartamento pontificio, introducendovi opere d’arte significative: bronzi e vetrate. In questa cappella il Papa prossimo beato trascorse moltissimo tempo in preghiera. Anche Gio­vanni Paolo II andava orgoglioso di quel gioiello. A­veva introdotto la consuetudine che i vescovi venu­ti a Roma alla visita ad limina concelebrassero al mat­tino con lui proprio nella cappella voluta da Paolo VI». Appunto: la bellezza cifra del mistero e richiamo al trascendente, la bellezza che invita gli uomini a tro­vare ciò che cercano.
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