lunedì 22 settembre 2014
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​Venerati e Cari Confratelli,

iniziamo il Consiglio Episcopale di settembre avendo nella memoria del cuore l’incontro con il Santo Padre Francesco, che ha aperto l’Assemblea Generale di Maggio, durante la quale – seguendo le indicazioni del Papa – abbiamo rivisitato il nostro Statuto e il Regolamento su alcuni punti. I risultati sono stati prontamente presentati al Santo Padre che ha espresso piena soddisfazione, ed hanno già ricevuto la “recognitio” della Santa Sede. Le modifiche apportate andranno in vigore – per espressa volontà del Sommo Pontefice – alla scadenza dell’attuale mandato del Presidente. Mentre ringrazio per la confermata fiducia del Vescovo di Roma, desidero, in questa autorevole sede, rinnovare la mia gratitudine a tutti i Confratelli per l’impegno generoso, responsabile e fraterno, che insieme abbiamo vissuto durante l’Assemblea Generale. Il Papa ci ha incoraggiati a proseguire con fiducia il servizio pastorale e ad essere – con tutta la comunità cristiana – una Chiesa in uscita. In questo orizzonte, a quasi un anno dall’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, vero dono alla Chiesa, appena possibile sarà bello e doveroso chiederci a che punto siamo nella sua ricezione e applicazione. 1. Le persecuzioni Durante il suo viaggio nella Corea del Sud, dove ha beatificato Paul Yun JI-Chung e i suoi 123 compagni, tutti martiri per la fede (16.8.2014), il Santo Padre ci ha messi ancora una volta di fronte alla testimonianza suprema a Cristo e alla Chiesa, il martirio. Come non ricordare qui anche l’uccisione delle tre Suore saveriane in Burundi? Dal feroce e continuo spargimento di sangue di tanti cristiani, si resta inorriditi e increduli poiché, fino a ieri, nella coscienza collettiva si pensava al martirio come ad una drammatica pagina di epoche lontane. Così non è! L’intolleranza religiosa, che violenta il diritto di professare la propria fede, è una vergogna terribilmente attuale. Per questo non possiamo tacere; la nostra voce di Pastori, insieme alle nostre Comunità, si è levata unanime e alta, ed ha accompagnato quella del Santo Padre: abbiamo pregato nel giorno della Madonna Assunta in tutte le Chiese del Paese, e abbiamo inviato un forte appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché la comunità internazionale uscisse dal silenzio imbarazzato e pauroso, e prendesse le misure necessarie affinché lo scempio abbia fine e i cristiani – come le altre minoranze religiose – possano tornare nelle loro case liberi e in pace. Ma ciò non è ancora sufficiente: insieme ad un primo intervento economico che, attraverso la Nunziatura in Iraq e i Vescovi locali, arriverà ai perseguitati, c’è un’ altra doverosa forma di prossimità di cui siamo debitori. È la testimonianza più coraggiosa e convinta della fede: nel nostro Paese vivere da cristiani non pone a rischio la vita, ma non di rado provoca incomprensione e derisione. È un debito che abbiamo per rispetto al sangue dei martiri: “Oggi molto spesso sperimentiamo che la nostra fede viene messa alla prova dal mondo, e in moltissimi modi ci viene chiesto di scendere a compromessi sulla fede, di diluire le esigenze radicali del Vangelo e conformarci allo spirito del tempo. E tuttavia i martiri ci richiamano a mettere Cristo al di sopra di tutto e a vedere tutto il resto in questo mondo in relazione a Lui e al suo Regno eterno. Essi ci provocano a domandarci se ci sia qualcosa per cui saremmo disposti a morire” (Papa Francesco, Omelia Messa di beatificazione, Seoul 16.8.2014). La loro memoria ci impone di riconoscere e onorare anche quella moltitudine di “martiri anonimi” che ogni giorno, in molte parti del mondo, offrono la propria vita per Cristo, e soffrono pesanti persecuzioni. 2. Tensioni e conflitti Intrecciato all’accanimento contro i cristiani, il mondo occidentale assiste da tempo ad un crescendo di violenza che mescola e confonde politica, cultura, civiltà e religione, con una strumentale identificazione di occidente e di cristianesimo. “La gloria di Dio è l’uomo vivente”: “Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza! Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio!” (Papa Francesco, Incontro con i leaders di altre religioni e altre denominazioni cristiane, Tirana 21.9.2014). L’uomo è vivo quando vive nella giustizia e nell’amore, non nel rancore e nell’odio. L’uomo che uccide è un uomo morto; morto nell’anima, nell’intelligenza, nella dignità. La ferocia esibita con evidente compiacimento, fiera di seminare orrore nel mondo, si colloca al di sotto dell’umano, è radice dei crimini contro l’umanità che dovrebbero essere esecrati da tutti ed ogni istituzione – politica, culturale, religiosa – dovrebbe prenderne la distanza in modo chiaro, pubblico e definitivo. 3. Un altro fenomeno, che non può non interrogare, è l’oscura seduzione che il fanatismo terroristico sembra esercitare nel vecchio mondo. Non ci si deve meravigliare più di tanto: il nostro continente è vecchio perché privo di ideali veri, senza una cultura alta capace di far vibrare le menti e gli animi, di suscitare sentimenti e passioni nobili, di sprigionare energie, di alimentare un giusto senso di appartenenza. È ricco di cose, ma povero di significati. Per questo è debole. L’unico ideale sembra essere il profitto e il potere. La parola d’ordine, invisibilmente concertata, sembra essere “omologare”, rendere tutto – persone, cose, religioni, civiltà, valori – appiattito, uniforme, svuotato: una specie di poltiglia incolore e insapore, talmente tiepida da suscitare indifferenza e nausea. La monotonia e la noia subentrano, la vita si veste di grigio: l’uomo non vive solo di pane, ma anche di ideali nobili, e quando questi sono negletti e derisi allora l’uomo si svuota, e rischia di diventare più sensibile a scopi che si presentano forti ed esaltanti anche se turpi. Prima che uno scontro di forze, forse dobbiamo pensare ad un confronto di significati. Dall’Iraq alla Siria, dalla Libia alla Terra Santa, dall’Ucraina alla Nigeria e ad altri Paesi dell’Africa, si sono aperti – con modi e motivazioni complesse e diversificate – forme gravi di conflitto e sopraffazione. Le varie figure di ribelli, mercenari, terroristi, qua e là si mescolano e si confondono in plotoni di morte, pilotati da entità-ombra, ciecamente obbedienti ad un’unica parola d’ordine: seminare strage e distruzione, terrore e orrore. In non poche aree è esplicito anche l’inaccettabile progetto di cancellare la presenza cristiana. Come non pensare alla volontà di un genocidio? “La guerra è una follia” e l’aggressore bisogna fermarlo con i mezzi che la comunità internazionale valuta più necessari ha detto il Santo Padre al Sacrario di Redipuglia per commemorare l’inizio del centenario della Prima Guerra Mondiale (13.9.2014). Ma il nostro mondo dovrebbe fare anche un serio esame di coscienza sul vuoto spirituale che ha provocato e che alimenta. La coscienza, infatti, è il punto di forza di ogni uomo e di ogni popolo, e svuotare la coscienza – come si sta facendo – è un crimine incalcolabile contro l’umanità. Tra l’altro, significa anche oscurare la lucidità di analisi e snervare la capacità di prevenire e resistere a disegni di potere e di egemonia inaccettabili.  4. L’Assemblea CEI e la formazione del Clero Siamo lieti di sentire dal Santo Padre – sempre nel viaggio in Corea – l’appello ai Vescovi di essere “custodi della memoria e custodi della speranza”: “Voi custodite questa speranza mantenendo viva la fiamma della santità (…) Per questa ragione vi chiedo di rimanere sempre vicini ai vostri Sacerdoti, incoraggiandoli nel loro lavoro quotidiano, nella loro ricerca di santità e nella proclamazione del Vangelo di salvezza (…) Vicini ai vostri Sacerdoti, mi raccomando, vicinanza, vicinanza ai Sacerdoti” (Discorso ai Vescovi della Corea, 14.8.2014). Vogliamo sentire in queste parole accorate, riprese in un recente incontro di Vescovi (Discorso ai Vescovi partecipanti al Seminario della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, 20.9.2014), la conferma del nostro impegno nella prossima Assemblea Straordinaria (10-13 novembre p.v.), dove affronteremo il delicato tema della formazione del Clero. È anche questo un segno di quanto ci stiano a cuore i nostri seminaristi e Sacerdoti, nostri amici e primi collaboratori: noi e loro, uniti dalla medesima vocazione ricevuta da Gesù e costituiti un solo corpo dal vincolo sacramentale dell’Ordine. In quel contesto, la nostra attenzione andrà in particolare anche alla Vita Consacrata, a cui il Santo Padre ha dedicato l’anno pastorale 2014-2015. Già ora rinnoviamo alle persone consacrate la nostra stima e gratitudine per la loro presenza nella nostre Diocesi come segno del primato di Dio, e per i grandi servizi alla comunità cristiana e a tutti secondo i diversi carismi. 5. Il Sinodo sulla famiglia È ormai alle porte il grande appuntamento del Sinodo Straordinario dei Vescovi sul tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’Evangelizzazione” (5-19 ottobre p.v.). L’orizzonte è ampio e coinvolge le preoccupazioni di tutti i Pastori: l’educazione all’amore che non è pura emozione, la consapevolezza del sacramento del matrimonio e della sua grazia, la preparazione al matrimonio come cammino di fede, la coscienza che l’amore di coppia chiede di essere difeso, alimentato e risanato quando viene ferito, la difficile educazione dei figli, l’armonizzazione dei tempi della famiglia e quelli del lavoro, le situazioni di separazione e divorzio, le convivenze… Queste e altre ancora sono le sfide che noi Pastori ben conosciamo e di cui, insieme ai nostri Sacerdoti, ci prendiamo cura ogni giorno nella prossimità che caratterizza la Chiesa in Italia. Sarebbe gravemente fuorviante ridurre i lavori del Sinodo – come sembra essere indotto dalla pubblica opinione – alla prassi sacramentale dei divorziati risposati. Lo sguardo e il cuore dei Padri Sinodali, provenienti da ogni parte del mondo, si concentrerà dunque, insieme al Santo Padre, sulla famiglia e sul matrimonio, “piccola Chiesa”, dono di Dio e patrimonio dell’umanità, fondamento della comunità sociale, grembo naturale della vita dove i figli non si producono ma si generano, scuola e palestra ineguagliabile di virtù civili e religiose. Non sarà solo la luce della fede a illuminare la riflessione e il dialogo, ma anche la ragione aperta. 6. È necessario tornare a pensare e a pensare insieme: bisogna traguardare la “dittatura del pensiero unico e omologante” come dice il Papa. Appartiene alla nostra missione aiutarci e aiutare a reagire alla cultura delle frasi emotive, delle parole ad effetto, della ricerca di consenso, dell’intimidazione. Le questioni serie non si affrontano con battute o slogan che attirano applausi, o assimilandoci alla mentalità del secolo, ma con la fatica del pensare, con il tempo e il metodo. Il popolo ha una sua sapienza e il senso della fede: nonostante errori e limiti, il “popolo è il compendio di ciò che nell’uomo è genuino, profondo, sostanziale. (…) È l’uomo immediato in cui l’unità non si è spezzata. (…) È l’uomo che vive la vita nei suoi aspetti più semplici e veri” (Romano Guardini, Dostojevskij). Esso – se rimane fedele all’esistenza che gli è data e non assume un atteggiamento artificioso di pregiudizio ideologico – ha il senso, l’intuito della fede. Quel “sensus fidei” che non è una qualsiasi opinione – che può essere condizionata “da un contesto culturale determinato” –, ma è il sentire di coloro che – non importa quanti – partecipano cordialmente alla vita della Chiesa e, quindi, camminano insieme nella luce della Parola di Dio e del Magistero, nella forza dei Sacramenti e nel servizio della carità (cfr. Commissione Teologica Internazionale, Le sensus fidei dans la vie de l’Eglise, 2014). 7. La famiglia – troppo “disprezzata e maltratta” (Papa Francesco) – merita più considerazione sul piano culturale e molto più sostegno a livello sociopolitico. Questo, noi Vescovi, chiediamo, fatti voce di tantissime famiglie che nuotano – spesso annegano – in un mare di difficoltà, e fatti voce di molti giovani che non si sentono sostenuti per un progetto di vita familiare. Trascurare la famiglia, o peggio indebolirla con forme somiglianti, significa rendere fragile e franosa la società intera. In un progetto di vita che un uomo e una donna pubblicamente dichiarano e assumono con il matrimonio, la collettività riconosce un “soggetto” con doveri e diritti ai quali lo Stato si obbliga. Così facendo, attesta che il nuovo nucleo è una realtà stabile che genera futuro e bene per tutti; essenziale non solo per la continuità ma anche per l’organizzazione del vivere comune. Per questo la famiglia non è una questione privata ma pubblica, è un bene non solo per la coppia ma per tutti. Non c’era bisogno di una crisi così grave e perdurante per riconoscere che la famiglia naturale è veramente il presidio della tenuta non solo affettiva ed emotiva delle persone, ma anche sociale ed economica. Per questo invitiamo le famiglie a farsi protagoniste della vita sociale attraverso reti virtuose: reti nazionali e internazionali che diventino interlocutori con gli organi dello Stato e con il mondo imprenditoriale. Nel segno della sussidiarietà, costruire buoni e incisivi legami aiuta a rappresentare meglio la realtà e a partecipare alla costruzione di risposte eque ed efficaci ai gravi problemi della famiglia oggi. Come non tener conto anche che l’Italia ha il tasso di fertilità più basso d’Europa ed è la seconda nel mondo, e che la famiglia è la prima e più importante “impresa” in quanto genera il decisivo “capitale umano”? Infatti, “la famiglia rimane l’unità basilare della società e la prima scuola nella quale i bambini imparano i valori umani, spirituali e morali che li rendono capaci di essere fari di bontà, di integrità e di giustizia” (Papa Francesco, Discorso ai leader dell’apostolato laico, Corea 16.8.2014). In questo orizzonte, il Santo Padre ha chiesto che tutte le Diocesi nel mondo preghino per il Sinodo domenica 28 di questo mese. Da parte nostra, come Vescovi italiani, è stata indetta una Veglia di preghiera il prossimo 4 ottobre dalle 18 alle 19.30 in piazza San Pietro alla presenza di Papa Francesco e dei Padri Sinodali. Questa mobilitazione del popolo di Dio intende accompagnare i lavori dell'Assemblea Sinodale, invocando su di essa la luce dello Spirito Santo. Al contempo, esprime l'attenzione per la famiglia che resta l'architettura fondamentale dell'umano. 8. Il Paese Una parola la dobbiamo dire sul momento sociale che viviamo. È, come sempre, una parola rispettosa che fa eco a quella moltitudine di voci e di cuori che con noi hanno la bontà di confidarsi. Fa eco alle innumerevoli porte aperte delle comunità cristiane, caritas, centri di ascolto, mense e dormitori, punti di ricupero da dipendenze vecchie e nuove, spazi di integrazione e di formazione per grandi e piccoli, cittadini italiani e immigrati che, come ondate di disperazione, per vivere affrontano anche il rischio di morire. Si legge che in questo anno 2014 – nonostante le coraggiose operazioni in atto – sono morti nel Mediterraneo 1800 migranti! Torniamo a chiederci, dov’è l’Europa? Come diceva il Santo Padre, dobbiamo dichiararla tristemente una “non-Europa”? Non vorremmo mai questo; vogliamo vedere l’Europa casa dei popoli e delle Nazioni. Casa, non “albergo” dove i più ricchi e potenti possono meglio alloggiare; casa rispettosa delle storie diverse, mano che accompagna, non che schiaccia arrogante e matrigna. L’Europa ha un’origine cristiana: il Vangelo ha fatto sintesi di ogni contributo ed ha ispirato una cultura umanistica ammirevole, patrimonio di cui ha bisogno l’intera umanità che, nonostante tutto, guarda ancora all’Europa con speranza. Prove di tale accoglienza si sono moltiplicate in questa difficile crisi migratoria in tante diocesi, parrocchie, congregazioni religiose, associazioni di volontariato e cooperative lungo tutto il nostro Paese. Dietro l'invito del Santo Padre, a un "supplemento di ospitalità" - rilanciato insieme da Caritas e Migrantes - sono state accolte ben 4.000 persone, tra cui minori non accompagnati. Anche questa vicenda di ospitalità prova che la Chiesa è “esperta” di umanità, come affermava Paolo VI nella sua storica visita all’ONU. E di questo umanesimo concreto faremo oggetto di preghiera, di riflessione, di esperienze, di prospettive pastorali e culturali, nel Convegno Ecclesiale di Firenze nel prossimo anno, di cui sta per essere pubblicato il documento preparatorio. Tornando al nostro amato Paese, le notizie parlano ancora di recessione, della necessità di tempo, di riforme strutturali, di più ampie partecipazioni imprenditoriali, di investimenti, di visione industriale, di reti solide affinché i piccoli possano trattare con i grandi, di ricerca e continua innovazione per non essere imitati e penetrare mercati nuovi. Come Pastori dobbiamo testimoniare che serpeggia una depressione spirituale che non solo fa soffrire chi ha perso il lavoro o i giovani che non l’hanno ancora trovato, ma che debilita le forze interiori e oscura il futuro. Fino a quando? Chiediamo a tutti i responsabili della cosa pubblica, a coloro che hanno risorse finanziarie o capacità imprenditoriali, di fare rete “super partes” poiché la gente è stremata e non può attendere oltre. Il disagio, lo si sa, più perdura e più lascia il segno negli animi, fissa abitudini non sempre positive, è brodo di coltura non del meglio. L’occupazione difficile e il fisco predatorio, la burocrazia asfissiante e la paura diffusa di fare passi sbagliati, tutto concorre a non creare lavoro nei vari settori del pubblico e del privato, non stimola l’inventiva, non trattiene i giovani nel Paese. Questi, come emigranti forzati, forti della loro intelligenza e preparazione, tentano la fortuna altrove.  9. Educazione e totalitarismo culturale A proposito di formazione intellettuale e umana, torniamo ad esprimere – come ha fatto il Santo Padre in Piazza San Pietro il 10 maggio – la nostra stima e tutto il nostro apprezzamento per il mondo della Scuola a tutti i livelli, compresi i Centri di formazione professionale.  Una particolare vicinanza la vogliamo confermare alle Scuole Pubbliche Cattoliche poiché – a causa dell’inadempienza legislativa – insieme alle famiglie e ai Docenti fanno enormi sacrifici per resistere e così assicurare un’offerta formativa di qualità, tra l’altro facendo risparmiare allo Stato, ogni anno, almeno sei miliardi di euro. La Scuola accompagna e aiuta la missione educativa dei genitori, primi e insostituibili maestri dei loro figli: prima che ogni altro sapere, deve educare a pensare, al gusto di pensare con metodo e impegno: con la buona logica. Questo compito risulta sempre più urgente e merita ogni sforzo da parte di tutti: genitori, docenti, dirigenti, ministero, comunità cristiana. E – se posso – anche da parte dell’ampio mondo della comunicazione. La situazione è sotto gli occhi di tutti. Viviamo nella cultura dell’apparenza, in una specie di bolla virtuale piena di fantasmi e di miti che abbagliano ma che sono vuoti. Una bolla che continuamente dispensa sogni di cristallo destinati a frantumarsi sotto i colpi della vita. E quanto più i burattinai del mondo se ne accorgono, tanto più la gonfiano – questa bolla – perché continui a incantare. Ma l’uomo non può vivere sempre nel vuoto. Se nulla è vero e stabile per sempre, se tutto si equivale ed è passeggero – qualunque scelta e azione – allora annaspiamo nel nulla, poiché laddove tutto è possibile, nulla esiste. Sorge una domanda radicale, ed è questa da provocare nelle diverse sedi educative: “esiste qualcosa che mi merita? Che merita che gli consacri me stesso? Qualcosa che riempia di senso e di bellezza il mio cuore e la vita?”. Comprendiamo che siamo lontani da obiettivi a buon mercato: la gioia nasce dal dono di sé fino al sacrificio.La società stessa dovrebbe vivere di questa domanda, che consente di ritornare sempre di nuovo sui fondamentali dell’uomo e della convivenza, sul destino del vivere insieme nella giustizia e nella pace. Le consente di non camminare solo sui mezzi ma sui fini, non solo sulla tecnologia, ma sui significati spirituali ed etici. Parlare di “fondamenti” non è “fondamentalismo”, ma è un atto d’amore e un servizio anche allo Stato laico, che vive di premesse che non è in grado di garantire. La tecnica sta sfuggendo di mano all’uomo, che assiste impotente perché non dispone di un pensiero. Così l’uomo viene strappato ai legami naturali e sempre più s’ allontana dall’ esperienza dell’essere: si trova gettato nel mondo dell’esistenza ed è smarrito. Se una madre – come è accaduto – decide di portare a compimento la gravidanza di un figlio down e viene giudicata un’egoista da condannare anziché da ammirare e sostenere – scambiando così il bene col male – allora l’umanità si trova sulla strada sbagliata e non ha futuro. Porta qui l’emancipazione da Dio, il rifiuto dell’origine cristiana della cultura europea? È questo il risultato di una cultura liberata e liberante che procede trionfale verso una civiltà più giusta e umana? È solo un tristissimo esempio! Ma sotto la superficie che si agita e ammalia, vi è una vita brulicante: lo spirito dell’uomo, come dei popoli e delle Nazioni, cerca un senso per vivere, degli ideali alti e veri. L’umano dell’uomo non può sparire, perché in qualche parte del suo spirito sono depositate le esperienze più belle, i desideri più genuini e universali, ricordava Vaclav Havel. La gente semplice lo sa e resiste nella sua dignità quotidiana in famiglia, nel lavoro, con gli altri. Resiste nell’amore alla propria terra, sente di appartenere ad una storia, ad un popolo, ad una cultura, ad una religione…; senso di appartenenza che invece si vorrebbe dissolvere, poiché sradicare significa rendere smarriti, e quindi dominare più facilmente. 10. Il totalitarismo del pensiero unico decide che cosa esiste e che cosa no, di che cosa si può parlare e di che cosa è proibito, pena la pubblica gogna. È un “totalitarismo culturale” che si mostra tanto più arrogante quanto più è vuoto; tanto più pauroso e sospettoso quanto più è nudo. Dall’individualismo libertario l’uomo concreto – paradossalmente – è estromesso e sostituito da poteri anonimi, da burocrazie impersonali, da meccanismi artificiali, da logiche di produzione e di profitto. È “scaricato” dalla società in nome di una libertà senza legami: essa, ponendo l’individuo al centro di se stesso, lo isola dagli altri, e soprattutto si manleva dal dovere di prenderlo in cura con impegno di organizzazione e di costi. È più facile dirgli: “sei libero, decidi di vivere o di morire; di accogliere la vita fragile o di sopprimerla; di essere fecondo nel dono di te stesso, oppure di produrre un bambino…”; anziché dirgli: “in qualunque situazione ti trovi, non sei solo, la comunità sociale è con te e ti accompagna con ogni risorsa, poiché la tua vita è anche un nostro bene”. Esiste una via d’uscita? La Chiesa la conosce per grazia e la propone a ogni uomo di buona volontà; non può essere gelosa della gioia. Gesù Cristo – il Figlio unigenito di Dio – ha portato nel mondo il “noi” di Dio-Trinità e Comunione. È questo il grembo da cui veniamo, noi e questo splendido universo, e verso questo destino siamo incamminati. Dall’esperienza dell’io nel noi nascono luoghi, comunità, gruppi che formano un tessuto pre-politico; ma a condizione che l’io e il noi siano emancipati dalla omologazione, dall’appiattimento verso il quale siamo spinti, come se tutti dovessimo vivere con la testa sott’acqua. Le nostre parrocchie, comunità, associazioni, sono questi luoghi, ma auspichiamo che ce ne siano anche altri dove si possa dire, senza complessi di minorità, che questa cultura è totalitaria e vuota, “il re è nudo!”. E quante più persone e comunità lo diranno senza rancori ma con chiarezza, tanto più il giorno della libertà sarà vicino. Di solito, saranno gesti piccoli e quotidiani, come quelli dei poveri e dei semplici del Vangelo; in certi momenti saranno gesti pubblici e sonori come quello di San Giovanni Battista che, senza occuparsi del consenso e della propria vita, afferma la verità davanti a Erode e viene sacrificato. Ogni parola che ha il coraggio di andare contro corrente, ogni gesto che contraddice gli schemi del pensiero dominante in fatto di amore, famiglia, vita, cristianesimo, identità e storia, giustizia e pace…, trascende ogni singola persona e fa luce attorno. Interpella il mondo e pone la premessa che altre luci si accendano nella libertà di pensiero e di parola. È necessario il risveglio delle coscienze. Il Vangelo è il libro della libertà perché Cristo è la libertà di Dio apparsa nel mondo. 11. Testimonianza integrale Ritorna l’urgenza dell’evangelizzazione attraverso quella che potremmo chiamare “testimonianza integrale”. La coerenza della vita come discepoli del Signore è la prima e insostituibile forma di testimonianza: essa si esprime anche nelle innumerevoli opere di misericordia corporale che la Chiesa in Italia conosce e vive da sempre, e che oggi – in un contesto inedito – si moltiplica con fantasia e generosità. Ma la Chiesa non si limita a questo. È necessaria che la testimonianza si integri con l’annuncio esplicito – come già ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi –, con la profezia che annuncia il grande “Sì” di Dio all’uomo, alla sua voglia di vita e di felicità, di libertà e di amore. Cristo è il gioioso “Sì” all’uomo, al mondo, all’universo. E, come sempre, ogni sì d’amore include un no a ciò che si oppone alla felicità e alla vita vera. Non è questa, forse, l’esperienza di ogni azione educativa dei genitori verso i figli? Oltre che di testimonianza integrale, potremmo parlare di “profezia compiuta”: la profezia delle opere e quella della parola. Il Santo Padre ce l’ha indicata parlandoci nell’Assemblea Generale, quando ci ha incoraggiati ad essere “annunciatori della verità di Cristo e della sua misericordia. Verità e misericordia: non disgiungiamole. Mai! ‘La carità nella verità – ci ha ricordato Papa Benedetto XVI – è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera’ (Caritas in veritate, 1). Senza la verità, l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria discrezione: e ‘un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali’ (ib. 4), che in quanto tali non incidono sui progetti e sui processi di costruzione dello sviluppo umano” (Discorso all’Assemblea Generale CEI, 19.5.2014). Cari Confratelli, grazie per la vostra benevola attenzione e, ancor più, per il dialogo che – come sempre – ci vedrà impegnati in questi giorni. Ci sentiamo nel grande fiume della Chiesa che scorre verso la pienezza. Come Pastori – insieme alle nostre comunità – siamo chiamati ad essere lievito e luce del mondo. Il bene vero, la gioia profonda, la speranza affidabile, noi desideriamo annunciare e testimoniare in ogni modo agli uomini del nostro tempo. Tutto affidiamo alla Santa Madre di Dio Maria e a San Giuseppe suo Sposo: che ogni casa, che ogni comunità, siano come la casa di Nazaret.

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