lunedì 10 settembre 2012
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​C’è passato anche Giacomo Poretti, anche se con il rammarico inconfessato di non aver potuto giocare a basket per motivi di statura. Ecco una sintesi della testimonianza semiseria che il terzo lato del popolare trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo ha reso ieri a Montichiari sull’infanzia trascorsa in oratorio a Villa Cortese, il suo paese, negli anni ’50. «Nel mio oratorio si giocava a tutto, i maschi a calcio e calciobalilla, le femmine a mondo e strega comanda color. Si imparavano i nomi degli apostoli e quanti sono i sacramenti. Aveva un campo da calcio da 11 in erba dove il pomeriggio arrivavano tutti e 100 i maschietti del paese. Allora ci si divideva per età e i capitani giocavano a pari e dispari per formare le squadre. Poi ogni gruppo si prendeva uno spicchio di campo e si facevano le porte con i maglioni. Si giocavano anche otto partite contemporaneamente». Alle cinque il prete, don Giancarlo, chiamava tutti a raccolta in cappellina suonando la campana. «Ci interrogava su don Giovanni Bosco e sul catechismo. Poi – prosegue Poretti – tornavamo a giocare finché non era buio. Il don per convincerci ad andare a casa ci dava anche qualche scappellotto. La mamma quando arrivavamo a casa non ci salutava nemmeno, ci prendeva a scappellotti perché eravamo in ritardo e perché avevamo i pantaloni sporchi di erba». C’era anche una squadra di terza divisione in oratorio. «Il credo tattico di don Giancarlo era giocare per vincere. Soprattutto quando c’era il derby con il Busto Garolfo. Era un po’ come certi presidenti, la squadra la faceva l’allenatore, ma se uno veniva beccato a baciarsi al cinema, il don gli faceva saltare la partita». Le prime esperienze teatrali del comico risalgono a quegli anni. «In teatro la domenica pomeriggio veniva proiettato il film. Il massimo della trasgressione era il western. Poi una volta all’anno chiamava quattro ragazzi e gli faceva imparare il copione per la recita. Dopo alcune prove facevamo lo spettacolo durante i quali c’era sempre un bambino che si interrompeva e restava muto perché aveva dimenticato tutto.

Allora don Giancarlo saliva sul palco, gli mormorava qualcosa all’orecchio e lui riprendeva da capo. Ho fatto tre spettacoli anch’io. Nel primo facevo l’extraterrestre, nel secondo il cheyenne, nel terzo il cavernicolo. Però quando c’erano gli oratori, i genitori non avevano bisogno di tate e di iscrivere i bambini ai corsi sportivi e culturali. Il don era la tata di tutti i ragazzi del paese, tutti lo temevano e tutti si sentivano al sicuro quando c’era lui».

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