mercoledì 18 ottobre 2017
Per l'ordinario di diritto canonico monsignor Pighin, il nodo principale del confronto resta la nomina dei vescovi e la soluzione di quelli ordinati privi di consenso papale
Pechino-Santa Sede, dialogo nella riservatezza
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Come è noto dal giugno 2014 sono in corso contatti reciproci tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese che sono entrate in una “fase nuova di rapporti” voluta sia da Papa Francesco che dal presidente Xi Jinping, assurti nei rispettivi incarichi nel mese di marzo 2013. Contatti che per la prima volta hanno caratteristiche di “continuità”, “frequenza”, “regolarità” e “ufficialità”. Di questi contatti rimangono sempre però i “connotati della riservatezza”. Così nulla si sa sulla materia e sui contenuti di questi colloqui.

Ma a gettare qualche fascio di luce su quanto si sta discutendo tra Roma e Pechino arriva ora un interessante e importante contributo di monsignor Bruno Fabio Pighin, ordinario di diritto canonico alla Facoltà S. Pio X di Venezia, nonché grande esperto della figura del cardinale Celso Costantini, pioniere nei rapporti tra Pechino e Santa Sede. Le sue opere sono citate più volte in quello che è stato il più organico intervento sulla Cina del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, tenuto proprio a Pordenone un anno fa per commemorare la figura di Costantini. Pighin è direttore scientifico della rivista Ephemerides Iuris Canonici (edito dalla Marcianum Press) e proprio nell’ultimo fascicolo di questa pubblicazione ha firmato un articolo significativamente intitolato “Per un accordo tra Santa Sede e Governo cinese sulla nomina dei Vescovi nella terra di Confucio”.

In questo articolo Pighin ricorda innanzitutto quali sono i punti oggetto del dialogo in corso. E cioè: “mettere fine ‘impunemente’
alla clandestinità di numerosi milioni di fedeli” in Cina, dove “non esistono due Chiese – una ‘ufficiale’ e l’altra ‘sotterranea’ – ma una sola Chiesa” e dove non c’è stata mai “una rottura qualificabile come scisma”; riassicurare la Repubblica popolare “sul rispetto dei cattolici cinesi verso di essa”; riconsiderare il ruolo dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Apcc) che deve “chiarire definitivamente” la sua “indole ‘civile’ e non ‘ecclesiale’” cessando di “rivendicare” competenze “intrinsecamente religiose” e astenendosi quindi di voler incidere – come avviene – “persino nelle nomine episcopali”.

Collegati a questi tre punti c’è la questione della revisione del numero e i limiti geografici delle circoscrizioni ecclesiastiche cinesi unilateralmente ridotte (da 137 a 98) e modificate dal governo (ma su questo un’intesa appare raggiungibile “senza grandi difficoltà per la Santa Sede”) e quella del riconoscimento da parte vaticana della cosiddetta Conferenza episcopale in Cina finora impossibile perché comprendente i vescovi considerati illegittimi da Roma ed escludente quelli riconosciuti dal Vaticano ma non dal governo.

Ciò detto Pighin osserva che il problema “più importante e urgente” da risolvere nei negoziati in corso è quello della nomina dei futuri vescovi e dalla “normalizzazione” di quelli già consacrati. Una questione “connessa” alle precedenti, ma da esse “pure disgiungibile”.

Approfondendo questo nodo Pighin ribadisce che per la Santa Sede tutti i vescovi cinesi, anche quelli ordinati senza mandato pontificio a partire dal 1958 e quindi illegittimi, sono stati validamente consacrati, anche se quanto avvenuto a partire da quella data ha creato sul campo una “situazione critica piuttosto complessa”. Così da una parte abbiamo: “numerosi” vescovi “legittimamente consacrati e ufficialmente riconosciuti”, “altri” nominati senza mandato pontificio ma poi legittimati, “alcuni” ancora

illegittimi ma “facilmente legittimabili” e “pochissimi” illegittimi e non legittimabili. E dall’altra una trentina di vescovi ‘clandestini’, non riconosciuti dal governo e consacrati in base a ‘facoltà specialissime’ concesse nel 1981 e revocate nel 2007 con la “Lettera” ai cinesi di Benedetto XVI.

Ed è proprio per sanare questa complessa situazione che è in corso il dialogo sino-vaticano che potrebbe avere come approdo una “convenzione” in materia. Certamente, osserva Pighin, una soluzione sarebbe più facile con la nomina di un nunzio o almeno di un delegato apostolico a Pechino che potrebbe avere “un’importante funzione “mediatrice” nella nomina dei vescovi, facendo convergere sui promovendi diverse istanze delle Chiese locali e della società civile, d’intesa con le autorità governative”. Con implicito riferimento alle modalità ‘democratiche’ attualmente usate in Cina per scegliere i vescovi ‘ufficiali’, Pighin ammette che “potrebbe essere oggetto di un’intesa tra Chiesa cattolica e Stato cinese” l’istituzione di “assemblee delle diocesi” “legittimamente convocate” alle quali sia permesso di “indicare il profilo desiderato del futuro vescovo” senza però che venga fatto il “suo nominativo”.

In mancanza però di un nunzio o di un delegato, sottolinea Pighin in quello che è forse il punto di maggiore ‘attualità’ del suo articolo, “non si vede altra via percorribile che quella di un accordo” che “assegni allo Stato il diritto di presentare alcuni candidati per reggere le singole diocesi e alla Santa Sede il diritto di scegliere tra essi il futuro pastore”. Fermo restando che “il diritto di presentazione di una rosa di candidati non può comportare l’automatica istituzione di uno di essi, qualora, a giudizio della Sede Apostolica, tutti i presentati risultino non idonei all’ufficio episcopale per il quale sono proposti”. In tal caso “sarà possibile passare alla presentazione di una seconda rosa di candidati” che comprenda però qualche nome ritenuto idoneo.

Questa quindi potrebbe essere la soluzione, temporanea, per la nomina di nuovi vescovi. E per la soluzione delle situazioni critiche riguardanti quelli già consacrati? Come risolvere la questione dei sette vescovi illegittimi di cui tre dichiarati scomunicati? A questo proposito Pighin osserva che sottoponendo una richiesta motivata i vescovi possono essere legittimati e che è sempre possibile la remissione della scomunica, come avvenuto per i presuli lefebvriani, fermo restando che questa remissione non significa “automatica legittimità dello status episcopale e della guida pastorale di una comunità diocesana”.

E il problema della trentina di vescovi ‘clandestini’? Pighin ammette che il “loro numero elevato e la loro diversa connotazione costituiscono forse il punto più critico da risolvere” in un accordo tra Santa Sede e Repubblica popolare. Giudica poi “inevitabile” che questi vescovi debbano fare una dichiarazione “di rispetto per le autorità civili e di unità con tutti i vescovi”, fermo restando che questa dichiarazione non dovrà contenere “formule canonicamente inammissibili, che suonino a riconoscimento dell’indipendenza della comunità cattolica cinese dalla Chiesa universale”. Ma se questo non fosse sufficiente perché il governo riconosca pienamente questi vescovi ‘clandestini’ Pighin ammette la possibilità di soluzioni “diverse, caso per caso” onorevoli per ambo le parti, purché “sia fatta salva la dignità episcopale di detti vescovi, validamente e legittimamente ordinati”. Così a questi vescovi potrebbe essere assegnate diocesi di nuova costituzione, oppure un ufficio di ‘ausiliare’, oppure la guida di “strutture personali, non territoriali, temporanee e prive di carattere diocesano”.

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