venerdì 26 luglio 2013
«Qualcuno ci dice: «Dovete parlare solo del Vangelo». Allora rispondo: «È quello che facciamo. Perché il Vangelo parla di uomini e donne e di un Dio che è loro vicino.
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«Qualcuno ci dice: «Dovete parlare solo del Vangelo». Allora rispondo: «È quello che facciamo. Perché il Vangelo parla di uomini e donne e di un Dio che è loro vicino. Parla del dovere della fratellanza. Parla della realtà. E la realtà che vediamo nelle favelas è spesso tremenda. Noi ci mettiamo a fianco degli abitanti per aiutarli a trasformarla in un’ottica evangelica». L’opzione per i poveri traspare da ogni parola di padre Luis Antonio Pereira. «Veramente la mia è un’opzione per le favelas», scherza questo sacerdote dall’aria giovanile e determinata, coordinatore della pastorale delle favelas di Rio de Janeiro. Dove 1.130 isole di emarginazione - questi gli ultimi dati della Prefettura che segnalano un aumento di oltre 400 baraccopoli rispetto alle stime degli anni Novanta - restano incastrate nelle pieghe del boom brasiliano. Di cui qui non arrivano che pallidi riflessi. Malnutrizione e miseria estrema sono diminuite, il grande problema rimane però la carenza - quasi inesistenza o meglio inerzia - dei servizi pubblici. Scuole e ospedali ci sono, ma sovraffollati e di pessima qualità. E questo cronicizza le diseguaglianze, condannando i residenti a una perenne marginalità. Nonostante la politica di “pacificazione” - avviata nel 2008 e che ha portato i corpi di polizia di pace (Upp) in 32 favelas - lo Stato, continua ad essere assente.E la Chiesa?La Chiesa è dentro le favelas fin dalle loro origini, tra l’inizio del Novecento e gli anni Sessanta. Il primo intento sistematico di azione pastorale nelle baraccopoli comincia nel 1946 con la creazione della Fondazione Leone XIII da parte dell’arcidiocesi carioca. E continua con lo straordinario lavoro di dom Hélder Câmara, all’epoca vescovo ausiliare di Rio. La "sua" Cruzada São Sebastiano per la promozione umana dei favelados ha gettati i semi per la nascita dei comitati di quartiere. Una prospettiva proseguita, poi, da padre Italo Botelho, storico parroco del Morro del Cabrito, non lontano da Copacabana. Da queste esperienze è nata la pastorale delle favelas, nel 1977.Che tipo di lavoro avete svolto negli ultimi 36 anni?Il nostro obiettivo è quello di stare all’interno delle favelas, lavorando non per gli abitanti ma insieme a loro. In una prospettiva di scambio, prossimità. Le baraccopoli non sono e non devono essere mondi a parte. Sono parte integrante del tessuto urbano. La Chiesa lo dimostra nella pratica, con la sua presenza. Che negli ultimi dieci anni si è dilatata: abbiamo raddoppiato il numero di centri comunitari, chiese mense, asili. Ora esiste almeno una cappella in ognuna delle oltre mille baraccopoli carioca.Il Papa ha visitato una delle più piccole favelas carioca, Varginha. Che significato ha questo gesto?Ha un valore dirompente per gli abitanti delle favelas. Mentre la società continua ad escluderli, il Papa li include nel programma di un viaggio. Si ferma e trascorre del tempo con loro. Sa che cosa dicono di Francesco, i favelados? "E’ uno di noi"…Che cosa è cambiato dopo il 2008, con la "pacificazione".Il traffico di droga si è fatto più nascosto ma non è scomparso. L’emarginazione persiste e questa alimenta la violenza. Oltretutto la "pacificazione" è una fase transitoria. Le unità di polizia non possono restare per sempre nelle favelas.Che cosa accadrà dopo?Questo è il grande interrogativo. Il nostro lavoro, ora più che mai, si concentra sulla formazione. L’educazione alla cittadinanza è la base affinché si crei o si incrementi una fascia di persone responsabili, con una visione sociale ampia, che medi con le autorità quando le forze dell’ordine dovranno andarsene.
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