sabato 27 luglio 2013
Viaggio con i pellegrini italiani che per un disguido provvidenziale sono finiti a Cidade de Deus, troppo spesso additata soltanto per violenza e criminalità, ma dove tanti hanno scelto di aprire le porte delle loro umili case in una prospettiva di scambio e integrazione con il resto della città e del Paese. Educazione e sanità, vie per migliorare la condizione dei favelados.
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​Il profumo si sente già sulla soglia. «Ho preparato una sopa per le ragazze. È un piatto tipico: c’è carne secca, bacon, riso, fagioli, manioca. Gliela farei assaggiare ma non è ancora pronta…», racconta Ana scoperchiando la pentola di rame che ribolle sul fornello a gas. L’aspetto è invitante. «No, no, dev’essere più dorata e compatta», aggiunge. Tanto c’è ancora tempo. Le due giovani ospiti - due ventenni arrivate da Bahía e dalla Paraiba - rincaseranno tardi: gli appuntamenti offerti dalla Giornata mondiale della gioventù sono tanti. E Rio è grande. Per arrivare dal centro alla Cidade de Deus, dove abita Ana, ci vuole circa un’ora. «Scomodo? Nemmeno per sogno. Le famiglie di Cidade de Deus sono come il Cristo del Corcovado: sempre con le braccia spalancate per accogliere chi incontrano», dice René, 26 anni, studente universitario di Fortaleza. Insieme ad altri 35 giovani è capitato in una delle più conosciute favelas della Cidade Maravilhosa per un disguido “provvidenziale”. «C’era stato un errore e non risultavamo iscritti al Comitato organizzatore della Gmg. Ci eravamo rassegnati a dormire in un parco quando le persone della Cidade si sono offerte di ospitarci». In realtà, i residenti avrebbero voluto dare un contributo ben maggiore all’evento. «Avrebbero dovuto ospitare 1.500 pellegrini… – dice Monica, volontaria per la Gmg –. L’idea era nata a Madrid, dove per la prima volta tre ragazze della favela avevano partecipato alla Giornata. Erano tornate così entusiaste che ben presto avevano contagiato l’intera comunità». Tanti avevano scelto di aprire le porte delle loro case umili in una prospettiva di scambio e integrazione con il resto della città e del Paese. Il sogno si è infranto qualche settimana fa quando, di nuovo, un errore nelle iscrizioni ha dirottato i giovani verso altre sistemazioni. «Beh, alla fine, è stato un bene, così sono arrivate Maria e Fernanda. Le mie figlie sono entusiaste: sa non siamo abituati a ricevere gruppi da fuori... E Maria viene da Timor Est!», esclama Jeorge, 40 anni, autista di bus. Tra le famiglie della Cidade e i nuovi arrivati è scattata immediatamente un’"affinità elettiva". Tanto che, quando il Comitato organizzatore ha trovato ai giovani una sistemazione più centrale, questi ultimi si sono rifiutati di andar via. «Stiamo così bene. Ci hanno dato perfino i loro letti…».Anche questa è Cidade de Deus: una comunità di 60mila persone accoglienti e allegre. Un aspetto che gli abitanti dell’"asfalto" - così i favelados chiamano il resto della città - non sono abituati a guardare. Per loro, Cidade de Deus è sinonimo di narcotraffico, emarginazione, degrado. «La violenza è reale – spiega fratel Anderson Pereira, missionario del Sacro Cuore che ha trascorso otto anni nella favela – e continua, seppure in forma più velata, a dispetto della "pacificazione". Ma è reale pure lo straordinario senso di fratellanza fra gli abitanti, di ospitalità, la voglia di migliorarsi e migliorare il proprio quartiere. Solo è necessario incoraggiare questa parte della Cidade». Proprio per questo, fratel Anderson ha creato nel 2009 la Casa della cultura in una struttura inutilizzata adiacente alla parrocchia. «I trafficanti si erano appropriati di questo spazio come una specie di "base" per le loro scorrerie. La comunità ha voluto riprenderselo costruendovi uno spazio che, a partire dall’arte, la cultura, lo sport, promuove l’incontro tra gli abitanti", aggiunge il religioso. Ora la Casa della cultura è una struttura a tre piani al cui interno si tengono laboratori artigianali, mostre, corsi di alfabetizzazione per adulti, di karate, danza. «Non è un "corsificio", però – sottolinea Roma María, una delle "colonne" della Casa –. È uno spazio aperto. Ad esempio, i laboratori artigianali non prevedono lezioni: alcune persone si riuniscono e lavorano insieme, insegnandosi a vicenda». In questo modo, tra aghi e pennelli, si crea "comunità". «Cioè persone che si uniscono per raggiungere obiettivi comuni, per discutere, dialogare», ribadisce Roma María. Non è casuale, dunque, la scelta del nome della struttura. «La cultura aggrega valori. E aggrega persone intorno a dei valori», afferma il poeta Wellington che nella Casa organizza seminari di per ragazzi. Padre Giulio, lo storico parroco della comunità, ne sarebbe contento, dicono gli abitanti. Giulio Grooten ha accompagnato la favela fin dalle sue origini, dopo l’alluvione del 1967 che aveva lasciato senza casa migliaia e migliaia di carioca. Fu lui a dedicare la chiesa parrocchiale al “Padre Eterno e San Giuseppe”. «Perché in una Città di Dio, il patrono è il Padre eterno. E a san Giuseppe era un umile lavoratore. Come la gente di qui. I malviventi sono ben pochi. Le persone oneste devono solo essere motivate. Possono dare molto», spiega fratel Anderson. Jorge e gli altri 35 pellegrini “caduti dal cielo” a Cidade de Deus possono confermare.
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