sabato 11 luglio 2009
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Un importante aspetto della Caritas in veritate, fin qui non adeguatamente considerato dai pur ricchi ed articolati commen­ti di cui l’enciclica è stata fatta og­getto, è quella sorta di « ricentra­mento » che essa opera in ordine al­la dottrina sociale della Chiesa. Co­me ben noto, a lungo il magistero so­ciale ha fatto riferimento alla Rerum novarum di Leone XIII e ne ha ricor­rentemente celebrato i più impor­tanti anniversari, dalla Quadragesi­mo anno di Pio XI al radiomessaggio del 1941 di Pio XI, dalla Mater et ma­gistra di Giovanni XXIII (1961) alla Octogesima adveniens di Paolo VI (1981). Con la Caritas in veritate av­viene un ulteriore ricentramento, e­merge un nuovo punto di vista, rap­presentato non più dalla Rerum no­varum ma dal Concilio Vaticano II. È lo stesso Benedetto XVI, infatti, – prendendo lo spunto per l’avvio del suo discorso dalla Populorum pro­gressio – a sottolineare come questa enciclica sia strettamente connessa con il messaggio del Concilio Vatica­no II. Tale legame «non rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio co­stituisce un approfondimento di ta­le magistero nella continuità della vita della Chiesa» (n. 12). E tuttavia viene meno, di fatto, il quasi rituale riferimento alla Rerum novarum e viene avviato una sorta di «nuovo i­nizio », quello appunto rappresenta­to dal Vaticano II, poi continuamen­te richiamato nel testo della nuova enciclica. Non si tratta in alcun mo­do di una «sconfessione» della pre­cedente impostazione, ma la Rerum novarum, come gran parte del suc­cessivo magistero della Chiesa, ri­sentiva di un approccio che avrebbe voluto essere universalistico ma era in realtà «occidentalistico». Il fatto che di questo « nuovo corso » della dottrina sociale della Chiesa venga assunto a simbolo la Populorum pro­gressio e che di essa ( non più del­l’enciclica leoniana) sia stato volu­tamente celebrato dapprima il 20° ( Sollicitudo rei socialis) e poi il 40°, con la Caritas in veritate , sta a signi­ficare questo importante mutamen­to di prospettiva, che trova le sue ra­dici nell’avvenimento conciliare. Senza mettere nel dimenticatoio u­na ricca stagione di riflessione idea­le e di impegno operativo dei catto­lici – quella, appunto, cui la Rerum novarum ha dato impulso – una nuo­va stagione si apre ora, nei nuovi sce­nari della globalizzazione ampia­mente esplorati in questa enciclica di Benedetto XVI. Al centro di questa nuova prospettiva sta ormai non tan­to la «questione sociale« quanto la « questione antropologica » , il pro­blema, cioè, di dare una risposta ra­pida ed insieme convincente ai pro­blemi dell’uomo, a partire da una più equa distribuzione dei beni della ter­ra come espressione di quella emi­nente carità – operosa e fattiva, ca­pace di incidere non soltanto sulle coscienze ma anche sulle strutture – che è il nucleo centrale del messag­gio cristiano. Non è soltanto la dura realtà delle cose ma soprattutto l’a­scolto umile e paziente della Parola – come mette in evidenza Benedet­to XVI in una serie di importanti pas­saggi della sua enciclica – che legit­tima e fonda l’impegno dei credenti nella storia. Nel loro agire il magi­stero del Concilio Vaticano II assu­me un significato determinante, so­prattutto per la lettura che, in parti­colare nella Gaudium et Spes , esso ha fatto dei «segni dei tempi». Anche la globalizzazione è uno di questi «segni»: spetta ai credenti coglierne appieno le potenzialità umanizzan­ti, in spirito di collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà. Un’immagine del Concilio Vaticano II
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