martedì 23 luglio 2013
​Tra i pellegrini che sono saliti sul monte che sovrasta Rio e ospita la statua del Redentore, avvolta nella foschia. Si tratta di credere in un Dio che non vediamo eppure siamo certi che ci sia, e che ci attende a braccia aperte.
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La “salita” l’avevano preparata con cura. Tutti con la maglietta a righe bianco celesti, il cappello, l’immancabile spillina con papa Francesco sorridente. Sul minivan le prove di canto e di allegria. Poi la breve ascesa in fila indiana, le ragazze davanti e i maschi subito dietro, a dettare il ritmo con chitarra e tamburelli. Dall’Argentina al Corcovado una domenica differente, per restituire l’abbraccio al Cristo Redentore simbolo di Rio e di questa Gmg, per cercare rifugio nel suo cuore, per raccontargli cosa rende pesante la vita e cercare risposta nella sua misericordia. Più si saliva però e più l’immagine maestosa e austera del Signore che avvolge la baia sembrava lontana, sfuocata. Come se si fosse nascosto per trasformare la breve salita in pellegrinaggio, la gita in cammino di fede. Complice la nebbia, ma chi l’ha mai vista la nebbia a Rio de Janeiro?, poche centinaia di metri sono diventate il simbolo dell’esistenza intera, spesso una corsa affannosa verso un traguardo che quando ti sembra di poterlo afferrare, ecco che si sposta in po’ più in là. E se alla fine lo raggiungi, ti delude, perché l’hai caricato di troppe attese, che crescevano con te insieme all’ansia di arrivare. Eppure sul Corcovado, mentre poche decine di metri sotto la gente faceva il bagno nell’oceano, non c’era delusione ma solo sorpresa, l’allegro stupore di fronte a un tempo che l’uomo non può dominare. E poi era divertente accompagnare il soffio del vento, che di volta in volta “liberava” le braccia del Cristo, lasciava trasparire il viso, illuminava il piccolo cuore disegnato. E allora si accendeva la festa, il canto diventava più forte, la danza più coinvolgente. Sotto il basamento della gigantesca statua esplodeva la Gmg. Agli argentini rispondevano i francesi, i ragazzi tedeschi ballavano con i cileni, applaudivano anche i due giovani delle Isole Cook avamposto di un Paese che risveglia l’amore per l’avventura e sfida le tue poche nozioni di geografia. Nessun volto triste, nessuno sguardo scontento, sorrideva persino la signora anziana con le scarpe eleganti, un po’ stordita da tanto entusiasmo. A poco a poco che il pomeriggio diventava sera però, la sorpresa lasciava il posto alla consapevolezza di essere dentro un’avventura importante, che andava e capita e letta. La fede in fondo è proprio come il Redentore avvolto nella nebbia, si tratta di credere in un Dio che non vediamo eppure siamo certi che ci sia, lo sentiamo vibrare nelle ossa, sappiamo che ci aspetta con le braccia aperte ad ogni angolo di strada. Non conosciamo che viso abbia e dove abiti eppure lo incontriamo ogni volta che apriamo gli occhi. È nel viso del più povero tra i poveri, nell’anziano che si sente inutile, nei migranti in fuga da un Paese che li odia verso una terra che non li vuole. Lo sguardo del Cristo di Rio accarezza tutti, eppure sembra che parli proprio a te e a te solo. Le braccia aperte sono in realtà una croce su cui posare gli sguardi stanchi, le delusioni che non sappiamo vincere, la fuga vigliacca di fronte alle responsabilità e al povero che ci ha chiesto aiuto. Il Cristo di Rio è il Redentore che ha vinto la morte ed ora si offre al mondo con le ferite della Passione ancora aperte. La sua non è una misericordia di pietra, ma plasmata nella carne viva, segnata dalla sofferenza, è ossigeno per i nostri polmoni stanchi, è la mano che apre la finestra per dare aria nuova alle esistenze stantie. Per questo, come ripete in continuazione papa Francesco, non dobbiamo avere paura di raccontargli chi siamo e cosa viviamo, anche quando i nostri errori ci sembrano troppi e troppo grandi per essere cancellati. Perché il suo sguardo non condanna ma perdona, non rifiuta chi ha sbagliato ma lo aspetta per camminargli accanto. Le sue braccia sono aperte, danno riparo al profeta e ristoro all’uomo in fuga, sono l’unico rifugio sicuro della nostra vita, una casa sempre aperta, il solo amico che non tradisce mai. Perché anche se sembra solo pietra e calcestruzzo, la statua sul monte Corcovado ha un cuore, un piccolo cuore appena accennato, e quella che sembra soltanto una minuscola figura geometrica è in realtà l’origine di tutto. La radice che sostiene la nostra vita, la linfa dell’impegno cristiano, il punto di partenza della missione, come chiamiamo la volontà di testimoniare e di portare agli altri l’amore che abbiamo trovato nel Vangelo. Dall’Argentina alla Francia, dalla Germania alle Isole Cook, i giovani sono a Rio per questo. Per dire a tutti che Cristo riempie la vita, che il Signore c’è anche quando sembra distante, che alla fine del viaggio, oltre la nebbia, troveremo sempre un Padre con le braccia aperte ad aspettarci.
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