martedì 16 febbraio 2010
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La carrucola gira cigolando, i cavi d’acciaio si tendono, manovrati con cautela dagli artieri della Basilica. E lentamente, oscillando, la cassa che custodisce i resti di sant’Antonio viene issata fuori dal sarcofago, nella cappella di San Giacomo. Le grosse mani degli artieri la depositano per terra delicatamente, come fosse la culla di un bambino che dorme. Poi estraggono l’urna di cristallo: le ossa di sant’Antonio tornano alla luce. Una frazione di istante di silenzio nella penombra della cappella, tra gli invitati alla traslazione delle reliquie che saranno esposte ai fedeli fino a sabato. Ti volti: assiepati attorno all’urna i frati della Basilica, e suore, e le autorità cittadine, e i dipendenti del Messaggero di Sant’Antonio. Sulle facce ti pare di cogliere un’ombra di commosso stupore davanti a quello scheletro annerito dal tempo, e però perfetto: era un uomo dunque, sembrano dire, un uomo in carne e ossa quel santo di cui già ci parlavano i nostri nonni. Era un uomo, ha vissuto nella carne Antonio, che ora contempla Dio faccia a faccia. «O gloriosa fra le vergini», intona l’inno mariano, quasi a colmare l’istante di vertigine in cui il tempo è sembrato annullato: 779 anni dopo la morte, quel frate ancora fra la sua gente, a Padova. Certo, ciò che resta di lui: le dita lunghe e sottili con cui sanava e assolveva, le ossa delle gambe ispessite dalla lunga abitudine a pregare in ginocchio. Ciò che resta: ma è già tanto, per gli uomini, poter vedere e toccare le reliquie di un santo. Perché i cristiani non disdegnano la carne. «La nostra fede – dice entrando nella Basilica padre Ugo Sartorio, direttore del Messaggero di Sant’Antonio – si fonda sulla incarnazione, realtà concreta che non diserta mai la storia».E di nuovo l’altra notte la storia di Padova ha incrociato, come a un appuntamento, quella del frate venuto da Lisbona che guariva i malati, e faceva parlare i neonati, e inginocchiare una mula davanti all’ostia consacrata. La prima ostensione fu nel 1263, la seconda nel 1981, trent’anni fa. (E si temeva, nell’aprire dopo tanti secoli la bara, che le reliquie fossero sparite, rubate, o che fosse piena solo di ceneri. Invece le ossa erano lì, ben conservate; e anche le cartilagini che reggevano le corde vocali; mentre la lingua del predicatore che incantava le folle, scoperta intatta nella prima ricognizione da san Bonaventura da Bagnoregio, è da secoli nella cappella delle Reliquie).Sull’urna tornata alla luce si avventano i flash dei fotografi e le telecamere. Da dietro, i frati, e soprattutto quelli coi capelli bianchi, la fissano intensamente. Uno più vecchio, con la barba canuta, non resiste e si avvicina. («A gloria di Dio il corpo del servo di Dio viene venerato dai fedeli», è la parola di sant’Agostino con cui il superiore dei Frati minori per la provincia patavina, Gianni Cappelletto, ricorda il senso di questo gesto di fede).La processione si avvia verso la cappella delle Reliquie, e l’urna entra nello sfavillio di luce e di ori, di angeli di marmo osannanti dalle volte. Si recita compieta, e il cantico di Simeone. Poi – è una impressione? –, superato il primo sbalordimento, la folla degli invitati ora s’accalca, quasi preme per avvicinarsi: come quando un vecchio amico torna da lontano, e lo si guarda per un istante increduli prima di gettarsi ad abbracciarlo. Per primi, i frati si accodano attorno all’urna. Gesti senza parole: la lenta carezza di un frate anziano. Il bacio pudico di un altro alla teca (gesti di uomini che nel nome di Antonio, e di Cristo, hanno scommesso la vita). E noi borghesi, dietro: autorità, mogli in visone, colonnelli dei carabinieri, suore. Le facce segnate dalle rughe o dalla fatica, dall’eco di ambizioni, passioni e speranze. Muti, in coda, gli sguardi fissi su quelle ossa. «Si quaeris miracula... aegri surgunt sani», abbiamo cantato nella antica preghiera al Santo. Se chiedi i miracoli, i malati guariscono. E somigliamo, in questa processione, alla folla dell’affresco di Bartolomeo Montagna, nella Scoletta, qui in piazza. Il pittore immaginò, è vero, una ostensione che secondo gli storici non avvenne. E però come realisticamente quegli sguardi intensi, e le mani protese, somigliano alle nostre. Già, le mani. Le mani proprio non ce la fanno a non allungarsi, per sfiorare l’urna. Vedi la gente che, avvicinandosi, sembra imporsi di tenerle giù, a posto; ma quando sono proprio accanto non resistono, fugacemente il palmo si appoggia alla teca, come costretto da una attrazione segreta. Poi, un po’ sospinti dai frati, ce ne andiamo lasciando il corpo d’Antonio al suo riposo, fino all’alba, quando arriveranno i pellegrini. Per cinque giorni, finché non tornerà nella restaurata splendida Cappella dell’Arca.E ce ne andiamo sciamando fuori, nel chiostro e poi nella gran piazza silenziosa, morsi da un freddo che però ha già un remoto odore di primavera. Per questa piazza correvano i fanciulli, il 13 giugno 1231, gridando: «È morto il Santo!». Giacché per il popolo Antonio era santo già da vivo; già da vivo, lo avevano riconosciuto. E nella quiete della notte sul sagrato pensi meravigliato che ancora noi oggi siamo venuti qui per un frate morto 779 anni fa. Di quale altro uomo, condottiero, eroe, re, ci cureremmo, otto secoli dopo, e con un devoto stupore sulla faccia allungheremmo le mani a carezzarne attraverso una teca le ossa? I santi vincono il tempo, violano la congiura del tempo che incenerisce ogni cosa. Vivi, ancora e per sempre: e il popolo cristiano, che lo sa senza bisogno di tante spiegazioni, va a domandare con dimestichezza. Semplicemente. Come si bussa alla porta di un amico. Ieri. per farlo, si sono messi in fila in 15mila.
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