martedì 7 luglio 2020
Il responsabile della Comunicazione della diocesi di Milano propone «di andare oltre la mera considerazione strumentale» per capire «quale grazia si può nascondere nella rete»
«Pastorale e media, ora si deve riflettere su come e perché usarli»
COMMENTA E CONDIVIDI

Nei mesi della pandemia, bloccati in lockdown nelle nostre case, la comunicazione massmediale è stato di fatto l'unico orizzonte entro il quale le istituzioni civili ed ecclesiali hanno parlato alla gente e le persone hanno esercitato qualche relazione. Intanto le emittenti radio televisive sfornavano a valanga notizie, previsioni e interviste. Intanto, mentre i giornali e i libri non si poteva più acquistare, gli editori potenziavano il quotidiano online e la gente nelle case consultava compulsivamente WhatsApp in attesa di un messaggio, ignara spesso del fatto che le multinazionali telefoniche non si sarebbero lasciate scappare un'occasione così ghiotta.
Certo, un servizio informativo andava svolto, ma quale differenza poteva essere rimarcata rispetto ai bollettini finanziaria proclamati sino alla fine di gennaio o alle previsioni metereologiche o agli oroscopi che durante il lochdawn stavano in silenzio? Una informazione in tempo reale, logorroica e ripetitiva, ha di fatto evitato una comunicazione capace di profondità e consolazione, di bellezza che salva facendoti spaziare, sognare, pensare, scovando e segnalando qualche sussulto di speranza. Il lockdown di questa pandemia ancora perdurante è stato per la comunicazione massmediale una opportunità per un salto che tuttavia non ha fatto molta strada.


Dentro questo orizzonte - forse sin troppo critico - va collocato l'interrogativo che attraversa la nostra coscienza credente: cos'ha imparato la comunicazione massmediale esercitata nelle nostre comunità cristiane, nelle parrocchie, nei mesi della pandemia?
Certamente il fatto che ci siamo serviti degli strumenti social - anche senza una particolare preparazione - per trasmettere messe, celebrazioni e preghiere in streaming, è stato un prolungamento positivo di quell'insieme articolato di relazioni familiari, sociali, culturali e religiose che attraversandoci ci collegano tenendoci insieme. Senza pretendere tuttavia di riuscire a comporre i credenti in una comunione spirituale reale. Per dirla con un termine che un po' ci sfugge: in una comunione sacramentale.
Resta infatti tutta da verificare il senso del prolungamento celebrativo che abbiamo sperimentato, trasmettendo in video e in streaming le messe dalle nostre chiese vuote. In una linea più filosofico-culturale una domanda potrebbe tenere sullo sfondo il rapporto tra virtuale e reale. Consapevoli che, volendo restringere il campo ad un orizzonte più teologico-pastorale, una volta che è preclusa la possibilità di frequentare le chiese per partecipare alla messa (per mille ragioni e restrizioni), allora va davvero ripensato e ridetto con molta serietà il significato e il valore della partecipazione di un fedele ad una celebrazione video trasmessa.
Di fatto, sia il lavoro in smart working da casa, che sembrerebbe già comportare vantaggi per tutti gli operatori dell'azienda che lo promuove, come anche il guadagno di tempo deriverebbe dal moltiplicarsi delle video conference, reclamano un ripensamento capace di andare oltre una considerazione funzionale e strumentale della comunicazione massmediale.
Cosa potrà derivare la frequentazione anche solo funzionale dei social nelle nostre chiese, delle parrocchie, nelle scuole e negli oratori, è ancora tutto da scoprire. Senza cedere a facili semplificazioni nell'uso di un linguaggio informatico sempre più da esplorare e che, dotato di strumenti sempre più sofisticati, domanda consapevolezza etica e grande buon senso.
Nel Messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali dello scorso anno, papa Francesco invitava a riflettere su "come la comunicazione ci permette di essere, come dice San Paolo, 'membra gli uni degli altri' (cf. Ef 4,25), chiamati cioè a vivere in comunione all'interno di una rete di relazioni in continua espansione". Espressione ripresa nel Messaggio alla Catholic Press Association per la 2020 Virtual Catholic Media Conference del 30 giugno scorso.
Se resta innegabile il fatto che le relazioni che i social media riescono ad agevolare non adegueranno mai, non potranno mai sostituire quella comunione che solo lo Spirito di Gesù sa creare nelle nostre chiese, stando attorno alla Parola ascoltata e al pane eucaristico condiviso, tuttavia siamo tutti autorizzati a pensare che un nesso, qualche connessione più profonda tra i credenti che si ritrovano a celebrare l'eucaristia, anche i mass media e i suoi social la potranno e la dovranno segnalare. Oltre una mera fruizione spericolata, quale grazia luminosa si nasconde nella rete? Non perdiamo l'occasione di cercare ancora.
Responsabile Ufficio comunicazione Diocesi di Milano

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: