mercoledì 6 aprile 2016
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Apoco più di un anno dalla scomparsa di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, suo “segretario particolare”, ne rievocava la figura con un tono di accorato rimpianto: «Sono cosciente di essere stato vicino ad una luce abbagliante e ben poco mi sono illuminato, ho vissuto accanto ad un fuoco ardente e ben poco mi sono riscaldato, ho scoperto una sorgente di acqua limpida, ma non ho saputo dissetarmi compiutamente ». Era il 1979 e Macchi si riferiva ai quasi 24 anni trascorsi in quotidiana collaborazione con Montini arcivescovo e Pontefice; un imprinting tanto profondo nello suo spirito, da fargli vivere gli altri 28 anni della sua esistenza nel riflesso di quella figura. Ieri ricorrevano i dieci anni dalla morte di Macchi. E, quando ricevette la nomina da Montini, da poche settimane eletto arcivescovo di Milano, don Pasquale era professore nel Seminario di Seveso: un trentunenne appassionato di letteratura francese e di arte, che ai suoi superiori sembrò adeguato per accompagnare un presule della statura intellettuale di Montini. L’arcivescovo, in una lettera del 29 novembre 1954, scriveva al futuro segretario dando un’impostazione spirituale al lavoro comune: «Se Dio vorrà, dovremo lavorare assai, e camminare parecchio: incominceremo col chiedere al Signore che ci dia la grazia d’intenderci bene, d’usare bene del tempo, d’aver premura per ogni cosa e premura e bontà per ogni persona, e di servirlo quanto meglio possibile!». Il 5 dicembre 1954 don Macchi incontrò per la prima volta a Roma Montini, che entrerà nell’arcidiocesi il 6 gennaio 1955; ricevette dalle sue mani un appunto dattiloscritto con tre linee direttive: il segretario avrebbe condiviso lo stile di vita del vescovo; avrebbero seguito entrambi una regola; alla cui base si poneva una mutua spiritualità. Da subito l’arcivescovo richiamava al segretario il fulcro vocazionale del suo lavoro: non un impiego, ma un ministero in risposta alla chiamata di Dio e della Chiesa. Monsignor Macchi in seguito ricordò che Montini aveva anche aggiunto a voce: «Mi aiuti ad essere povero». Rinunciando alle sue proprietà di famiglia e delegando il segretario alla gestione economica quotidiana. Accanto all’arcivescovo Montini, il segretario fu, più che un esecutore, un collaboratore. Per esempio, lo aiutava nel gravoso impegno pastorale per le nuove chiese, avviando i contatti con imprenditori e banchieri per i necessari finanziamenti; e, seguendo una passione anche personale, organizzando mostre di artisti che cooperarono ad abbellire i nuovi templi… Bodini, Messina e Carpi sono solo alcuni dei grandi nomi coinvolti. Una comunione di intenti che sfociò, durante il pontificato, nella costituzione della Collezione d’arte religiosa moderna all’interno dei Musei vaticani; e nella realizzazione della Cappella privata del Papa ad opera di Consadori, Filocamo, Longaretti, Manfrini, Scorzelli e altri. È noto, poi, che don Macchi fu un efficiente organizzatore di viaggi, ma non solo durante il pontificato; a Milano partecipò attivamente alla preparazione di quello dell’estate 1960 negli Stati Uniti d’America, quando l’arcivescovo ricevette una laurea honoris causa con il presidente Eisenhower e in Brasile dove inaugurò la capitale; e in Africa due anni dopo, in visita alla Missione lombarda di Kariba. Durante il pontificato il ritmo di lavoro di Montini divenne sempre più gravoso e il segretario cercò di alleviarlo come poté, anche nelle ore serali, quando aiutava il papa ad esaminare le pratiche. Macchi – nel volume Paolo VI nella sua parola – ricordò il periodo pontificale sotto la grande chiave di lettura dell’umiltà, ritenuta l’aspetto più importante della personalità religiosa di Paolo VI. Al centro di tutto il pontificato egli pose il Concilio, vera opus Dei per papa Montini che lo portò a termine con coraggio e ne applicò i diversi documenti, in un continuo sforzo di catechesi del popolo di Dio. Questo testimone d’eccezione difese con calore il pontefice dalle accuse di problematicità fine a se stessa, di “amletismo”, e di essere triste e “mesto”. Il Paolo VI di Macchi, a differenza dello stereotipo di larga parte della stampa, era un uomo molto semplice e interiormente positivo, che viveva in profondo spirito di unione con Dio. Macchi amava molto l’immagine paolina del Pontefice – proposta dallo stesso Paolo VI – come timoniere della barca della Chiesa, scossa dalle onde impetuose della reazione al Concilio e della contestazione interna; e non smise mai di sottolineare lo spirito di fede con il quale il Papa visse in particolare modo gli Anni ’70. In questo contesto il segretario inquadrava le angosce di Paolo VI, rivelando le mortificazioni cui egli si sottoponeva per il bene della Chiesa, come l’uso del cilicio. Il segretario arrivava anche a parlare di audacia dei gesti profetici, in talune occasioni pastorali ed ecumeniche. L’unico velato rimprovero che muoveva al Papa era quello di non avere misura nell’accoglienza delle persone e di prolungare le udienze con forti ritardi: il segretario cercava di essere irremovibile con gli ospiti, benevolmente rimproverato dallo stesso Paolo VI. Da parte sua, Macchi riconosceva nel rapporto con il suo superiore un’evoluzione in crescendo: dalla stima e soggezione nei confronti del famoso ecclesiastico vaticano giunto a Milano, al sincero affetto nei suoi confronti, maturato nel percorso spirituale comune; fino all’approdo, negli ultimi anni di vita terrena di Paolo VI, alla convinzione della sua santità. Ecco la radice del suo grande impegno nella causa di beatificazione di Montini, iniziata ufficialmente nel 1993 ma della quale Macchi non ha avuto la gioia di vedere la conclusione il 19 ottobre 2014, con la beatificazione di Paolo VI. © RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo VI con il segretario monsignor Pasquale Macchi
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