mercoledì 26 maggio 2010
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Mi sono deciso a scrivere questa testimonianza dopo che un mio caro amico, a conoscenza del mio servizio verso i sacerdoti, cercò di provocarmi sul perché continuare dopo certi scandali. Quando risposi che oggi più che mai amo la Chiesa, replicò sorpreso: «Però, che fede!». Certo non avevo mai pensato che il mio amore per la Chiesa fosse un tema interessante per qualcuno, ma poi mi sono detto che forse questo è il momento di parlare lasciando andare il cuore sperando che questo sia di qualche utilità in questo momento di grande confusione.Amo la Chiesa innanzitutto perché mi è Madre. Lo è oggi ma lo è stata anche ieri, quando pieno del mio io potevo fare a meno di Dio. Silenziosamente, attraverso persone speciali, essa mi ha seguito da lontano e non si è fatta dissuadere dalle mie colpevoli infedeltà. Mi ha amato così come ero, dandomi il tempo del ravvedimento e della maturazione, senza dita puntate, paziente e piena di fiducia. La conversione è stata innanzitutto una profonda esperienza nella quale ho capito che cosa significa giudicare qualcun altro invece di allargare le braccia a dismisura fino ad aprirle alla stessa ampiezza di quelle del Crocefisso. Gesù di Nazareth ha lasciato che si forzasse la carne al legno per poter accogliere tutti, proprio tutti, ma soprattutto noi peccatori. Da questo abbraccio, dolce e sicuro, ho capito che cosa significa prendere le distanze dal peccato e continuare ad amare il peccatore. Così come fa quel Dio Mendicante seduto fuori dalla porta della nostra vita in attesa che gliela apriamo, per lasciarlo entrare nel nostro cuore e cambiarlo fino alla radice, anche quando tutto sembra opporsi.E io cosa avevo da offrirgli? Cosa avevo da offrire al sofferente, al ferito, al rabbioso, al disperato? Solo quello che avevo imparato nella mia professione di psicoterapeuta che allora volgeva verso la fine dei tre lustri. Eravamo nel 1994 e avevo già intrapreso il mio cammino di formazione diaconale, e il "grembiule della lavanda dei piedi" mi si era impresso nell’anima. Dovevo solo iniziare: ero certo che Lui avrebbe fatto il resto. Così nacque l’Apostolato accademico salvatoriano, con i suoi primi due rami operativi: il Centro per la famiglia Mater Salvatoris e il Centro per il sostegno psicologico al clero Oasi di Elim.Il primo era comprensibile data la professione, ma il secondo non aveva alcun senso se non in una profezia che allora non capii. Quando cominciò a crescere la fiducia della Chiesa verso le scienze umane cristianamente ispirate mi resi conto che si stava creando la condizione di una "vocazione nella vocazione". Da allora il mio "prossimo speciale" sono stati i sacerdoti, i consacrati e le consacrate che si sono rivolte al nostro centro. Oggi sono centinaia le persone passate dall’Oasi di Elim, e da un anno dal Monte Tabor. Due strutture a favore del clero e della vita consacrata fortemente volute la prima dalla diocesi di Roma e la seconda dalla diocesi di Albano. Ambedue vanno ben oltre la territorialità delle due diocesi svolgendo, con il sostegno della Cei, il loro servizio. Chi sono quelli che ci chiedono aiuto? Sono persone cadute nella tribolazione del disagio psicologico. La maggior parte delle problematiche sono simili a quelle di coloro i quali si rivolgono ai nostri consultori familiari: stress, fobìe, oppure semplici disagi di ordine esistenziale, che comunque non consentono una vita e un ministero sereno. Anche i sacerdoti sono persone come tutti gli altri, anzi, molto più sollecitate dal sovraffaticamento e dallo stress. Quanti ne abbiamo accolti prima che stramazzassero per la fatica del loro ministero, a cui stavano dedicando senza riserva l’intera vita!  Di fronte a tanto amore e abnegazione come non potevo non innamorarmi di questi uomini e donne i cui confini del cuore tentavano di raggiungere l’ampiezza del Cuore di Dio! Certamente nel percorso ho incontrato e toccato con mano anche lo scandalo della pedofilia e i suoi artefici. Ho incontrato i loro occhi toccando la profondità della loro paura e della loro vergogna. Quante sono queste persone rispetto all’insieme dei nostri "utenti"? Anche questa è una domanda ricorrente. Forse darò una grande delusione a chi vuole identificare la pedofilia con i preti, ma la percentuale ricalca pienamente quella già apparsa in altra documentazione: circa il 2%. La percentuale bassa non mi induce però, come non ha indotto il Santo Padre al cui fianco siamo dalla prima ora, a minimizzare il fenomeno. Il nostro intervento tempestivo fa la sua apparizione mentre le procedure canoniche fanno il loro corso. Nessuna fuga, nessun nascondiglio, ma solo la disponibilità professionale ad accogliere una persona che ha certamente bisogno di aiuto e che ha generato sofferenza ad altri. Di fronte a queste brutture la mia posizione non cambia: amo la Chiesa come e più di prima. Sento che mai come oggi ha bisogno di me, come madre ferita e addolorata. Come posso abbandonarla e allearmi con il giustizialismo di cui è imbevuto questo mondo materialista? Ma cosa è la Chiesa? Anzi, per la precisione, "chi" è la Chiesa? Lo scopro ogni volta in cui mi trovo davanti a "quell’uomo", per parafrasare Natan quando mette re Davide di fronte alla colpa sulla quale voleva glissare. Quando guardo quegli occhi bassi per la vergogna scorrono davanti ai miei tutti gli attori dell’orribile scena. Le braccia della Chiesa che in quel momento indegnamente rappresento si allargano fino a tentare di contenere tutti, che siano credenti o che non lo siano. Sono un diacono, e in quanto tale sono uomo del prossimo, quello della "Chiesa del grembiule", l’uomo di frontiera come mi hanno sempre detto. Allora la Chiesa che amo sta nel mio prossimo. E il mio prossimo è, in primo luogo, quello ferito, nel corpo, nel cuore e talvolta nell’anima. È quel bambino tradito e violato proprio da colui nel quale aveva riposto il suo affetto e la sua fiducia. Come non pensare a lui quando, facendo leva sulla sua vera contrizione, opero sul senso critico e sull’identità di sacerdote che doveva offrire a lui tutt’altro! Il mio prossimo è la sua famiglia, arrabbiata, addolorata e spaventata, a sua volta ferita non meno del figlio. Comprendo il bisogno di certezze. Il desiderio che la cosa non accada più a nessuno, e che nessun altro abbia a soffrire. Ecco allora che non basta solo guarire il sacerdote ammalato nell’oggi e nella mente, lo si deve guarire per sempre e nell’anima, per non ricadere in queste mostruosità. Il mio prossimo è la comunità nella quale si è perpetrato il gesto osceno, scandalizzata e disorientata, a una passo dal cadere nella cultura del sospetto anche sui suoi pastori più santi. Il chiamare in causa la comunità durante i colloqui psicoterapeutici diventa elemento di riflessione profonda e di allargamento degli orizzonti sulle conseguenze di questa deflagrazione immorale.Il mio prossimo è la Chiesa locale e il suo vescovo che nel dolore di padre fa propria la vergogna del figlio, e al quale comunque non può far mancare la sua presenza pur nel rigore e nella severità. Se si potesse rappresentare il cuore di un vescovo, così come io l’ho potuto vedere, siamo molto lontani dalle complicità descritte come scenari diabolici. Amando si può anche sbagliare, ed errori sono stati fatti, ma io credo molto nel motto che dice: «Solo chi non si assume la responsabilità del suo amore non sbaglia». Il mio prossimo è il Santo Padre su cui convergono le problematiche e le tribolazione della Chiesa e gli attacchi a essa. Egli è il mio Vescovo, ed è mio dovere offrirgli il mio braccio in qualunque frangente.Ma è anche il mio prossimo il sacerdote che ha sbagliato o che è ammalato. È mio compito e anche dovere della Chiesa, quale Madre, aiutarlo a recuperare la salute della mente e dello spirito, oltre che – in alcuni casi – aiutarlo ad accettare le determinazioni della giustizia.Ecco: questa è la Chiesa che amo. e nell’azione terapeutica tutto dev’essere armonizzato per il bene di tutti. Non è facile, anzi, è una battaglia estrema, da combattere non certo con gli strumenti del mondo. Il bambino ha bisogno di recuperare la sua fiducia nel mondo e non vuole la vendetta. La famiglia va aiutata a ritrovare la pace attraverso la giustizia e non fomentando l’accanimento. La comunità cristiana deve riflettere anche sulle proprie fragilità senza assurgere a giudice essa stessa accontentandosi della semplice espulsione della mela marcia.La Chiesa ormai è beneficamente avviata verso un radicale rinnovamento, cerca la verità e la giustizia ponendola quale caposaldo della credibilità dell’annuncio evangelico e dei suoi annunciatori, chierici o laici che siano. Su questo credo che nessuno possa nutrire più dubbi. Il principio guida è il "saper ben riconoscere e saper ben difendere la verità", da qualunque parte essa si trovi. La verità richiede equilibrio, sapienza e serenità. E io credo che la Chiesa abbia queste virtù poiché, al di là dei limiti umani, essa è sempre un’istituzione prima di tutto divina. In questo percorso, ormai irreversibile, essa è sicuramente alleata con il mondo laico, ma senza abdicare al suo ruolo di Mater et Magistra, utilizzando gli strumenti propri. Lascia perciò ad altri la responsabilità di travalicare i limiti della giustizia e il rischio di incorrere nel pericoloso e quanto mai tremendo e vendicativo giustizialismo. Se nel passato la verità è stata colpevolmente attenuata, oggi in alcuni casi rischia con pari colpa di essere ingigantita. Ormai credo sia chiaro perché amo la Chiesa, quella reale quella impregnata della presenza di Dio e lacerata dalla fragilità degli uomini. Quella di oggi e non quella di ieri, quella concreta e non quella astratta. A essa non farò mai mancare le mie mani, la mia intelligenza e il mio cuore, qualunque sia la bruttura che dovessi incontrare. Mai come oggi la misericordia di Dio si è fatta carne lacerata ed è visibile aldilà di ogni ragionevole sopportazione.Il Dio dell’impossibile, così come io l’ho incontrato, mi dice che scellerato ed empio non è solo colui il quale commette la colpa, ma anche chi si arroga l’ultima parola di vita o di morte sul suo simile. Nessuno sconto per il peccato, ma mani tese verso il peccatore perché si redima. Questo principio, che nasce dalla mente giusta di Dio, può però essere capito solo da chi, stanco di vivere ripiegato sul proprio ombelico, decidendo di alzare il suo sguardo al Cielo supera la tentazione dell’onnipotenza per riconoscersi felicemente e pienamente creatura.Marco Ermes Lupariadiacono permanente, psicologo psicoterapeuta, presidente dell’Apostolato accademico salvatoriano, responsabile del Centro Oasi di Elim e Monte Tabor
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