giovedì 6 settembre 2018
Chiusa la fase diocesana per la beatificazione del "giudice ragazzino", che, nel mirino della mafia, per non mettere a rischio altre persone non volle la scorta
La macchina di Rosario Livatino crivellata di colpi. È il 21 settembre 1990 (Ansa)

La macchina di Rosario Livatino crivellata di colpi. È il 21 settembre 1990 (Ansa)

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Nella scarpata dove Rosario Livatino aveva tentato di sfuggire ai killer mafiosi venne trovata la sua agenda di lavoro. Sulla prima pagina le tre lettere “STD”. «Mi domandai cosa potessero nascondere – ricorda il procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, che per primo indagò sull’omicidio –. Poi abbiamo scoperto che voleva dire “Sub tutela Dei”. Stava a dimostrare il fatto che si affidava al Signore non solo come cittadino ma anche nell’esercizio di una funzione così delicata come la nostra».

Questo era Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, di cui ieri ad Agrigento si è chiusa la fase diocesana di beatificazione. Fin dal primo giorno da magistrato, ad appena 26 anni. Era il 1978 e sempre sulla sua agenda aveva scritto: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».

Codice e Vangelo. Così ogni mattina, prima di entrare in tribunale ad Agrigento, andava a pregare nelle vicina chiesa di San Giuseppe. Non amava, per carattere e per scelta, il palcoscenico. Ma non viveva da recluso né nascondeva le sue idee, sia nell’Azione cattolica che negli incarichi nell’Anm, e soprattutto nei pochi testi che ci ha lasciato. Attualissimi. «Il compito del magistrato – leggiamo in un intervento su “Fede e diritto” del 1986 – è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata». Un rapporto che Livatino sentiva profondamente. «La giustizia – scriveva ancora – è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio». Parole incarnate in gesti concreti.

Così andava all’obitorio a pregare accanto al cadavere di mafiosi uccisi, alcuni dei quali aveva giudicato. E in un caldissimo Ferragosto andò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E quando all’ufficio matricole si stupirono, lui rispose semplicemente: «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più». Coerente con quella frase sempre trovata in una delle sue agende, poche parole, un programma di vita. «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da papà Vittorio e mamma Rosalia, si laurea a 22 anni col massimo dei voti. Nel 1978 comincia come uditore a Caltanissetta passando poi al Tribunale di Agrigento, dove come sostituto procuratore, dal ’79 all’89, si occupa delle più delicate inchieste di mafia ma anche della prima “tangentopoli siciliana”.

Il 21 agosto 1989 entra in servizio come giudice a latere e si occupa dei sequestri dei beni mafiosi, tra i primi magistrati siciliani ad applicare la legge Rognoni-La Torre che introduceva questa nuova forma di contrasto. E lo fa molto bene, al punto da essere un pericolo per gli interessi mafiosi. Sa di essere a rischio. Scrive: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». E poi quasi implora: «Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori». Ma non volle mai la scorta. «Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia».

Così girava con la sua utilitaria. Anche quel 21 settembre 1989. Come tutte le mattine stava raggiungendo da Canicattì, dove viveva coi genitori, il tribunale di Agrigento. Sul viadotto Gasena della statale 640 viene affiancato da una moto e un’auto che lo bloccano. Dopo i primi colpi, tenta di fuggire ma uno dei killer lo raggiunge. Sette colpi, l’ultimo sul volto come a dire: “devi tacere per sempre”. Killer e mandanti, grazie alla coraggiosa testimonianza di Pietro Nava, presente in quel momento, sono stati individuati e condannati. E Rosario ha continuato a parlare. Anche a uno dei suoi killer, Gaetano Puzzangaro, che in carcere si è pentito, testimoniando per la causa di beatificazione, a partire dalle ultime parole di Livatino: «Cosa vi ho fatto?».

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