venerdì 22 maggio 2009
A Roma tre giorni di studio sul rapporto tra l’ebraismo e il cristianesimo delle origini alla luce del pensiero paolino. Tra gli organizzatori dell’evento, che si chiude oggi, l’Università Ebraica di Gerusalemme.
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Paolo: un ebreo che scriveva in greco e un uomo capace di gettare ponti tra culture diverse. Il simposio internazionale «Paolo nella sua matrice giudaica » , che si chiude oggi, ha messo a confronto la ricchezza delle interpretazioni del mondo cristiano e del mondo ebraico a partire dall’apostolo per arrivare alle differenti letture del significato della Bibbia e della Rivelazione. Il simposio è organizzato dal centro Cardinal Bea per gli studi giudaici della Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’Università Cattolica di Lovanio e con la Basilica di San Paolo fuori le Mura, per « arrivare ad una sintesi tra punti di vista diversi » , come ha sottolineato in apertura dei lavori il gesuita Joseph Sievers, direttore del Centro Cardinal Bea. Tra le varie ed ampie relazioni, il professor Ed Parish Sanders, gesuita, della Duke University ( North Carolina), nella prima conferenza pubblica ha messo l’accento sul fatto che Paolo aveva una strategia missionaria del tutto particolare: «lui avrebbe convertito i gentili alla fede in Cristo. Pietro e presumibilmente gli altri apostoli di Gerusalemme avrebbero persuaso anche gli ebrei a porre la loro fede in Gesù. Allora tutti avrebbero fatto parte del popolo di Dio, uniti dalla fede in Cristo » . Che Dio abbia un piano per la storia è un « pensiero profondamente giudaico » e sebbene Paolo « vivesse e operasse in un mondo che parlava greco » , la sua istruzione e « la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell’escatologia ebraica; l’esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica » . Nella sua azione evangelizzatrice creò un gruppo di credenti diverso dagli ebrei e diverso dai pagani « come parte della nuova creazione che sarebbe arrivata pienamente quando il Dio di Israele, l’unico vero Dio, avrebbe portato la storia ordinaria alla sua conclusione». Dal punto di vista ebraico il professor Emanuel Tov, nella seconda relazione pubblica di ieri, ha ripercorso i rapporti tra la traduzione dei Settanta e la Bibbia, ricostruendo l’ambiente letterario e la circolazione dei testi e sottolineando, con esempi, le diverse e molte difficoltà incontrate dai traduttori a comprendere e dunque a rendere dei concetti ebraici. Le divergenze di contenuto tra il testo ebraico e la versione dei Settanta, dai dettagli nell’abbigliamento dei personaggi biblici fino al modo di esprimere concetti relativi alla vicinanza di Dio rispetto all’uomo, aiutano comunque a comprendere la storia della trasmissione e della comprensione del testo biblico.La ricerca in merito è ancora aperta, ha sottolineato lo studioso, che quest’anno ha ricevuto, tra l’altro, uno speciale premio ebraico per gli studi biblici. Tov ha concluso il suo intervento auspicando che si approfondisca l’interscambio culturale, esegetico, teologico, tra mondo cattolico ed ebraico. Apertisi mercoledì pomeriggio presso il Pontificio Istituto Biblico oggi i lavori del convegno terminano nella cornice della Basilica di San Paolo fuori le Mura, alla presenza del cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, arciprete della Basilica, e dell’abate della comunità benedettina Edmund Power.
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