martedì 2 giugno 2020
il presidente dell’episcopato regionale Antonello Mura: «La Sardegna deve ritrovare fiducia». Un gesto non solo religioso
La basilica di Bonaria a Cagliari

La basilica di Bonaria a Cagliari - .

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Nei 650 anni dall’arrivo miracoloso dell’immagine mariana dal mare, Bonaria le ha viste assolutamente tutte, condividendo ogni ferita di Cagliari e del popolo sardo di cui è patrona. Il coronavirus si aggiunge a una lunga lista di guerre, epidemie e crisi, prove durante le quali la Sardegna ha sempre saputo nel fondo del suo cuore dove bussare e a chi ricorrere. Naturale che i vescovi delle 10 diocesi sarde abbiano pensato a un gesto di affidamento dell’Isola a Nostra Signora di Bonaria, per il 2 giugno. A guidarli è monsignor Antonello Mura, che di diocesi ne governa due (Nuoro e Lanusei) e che con i confratelli ha firmato un Messaggio di grande speranza ma anche di acuta analisi religiosa, sociale ed economica. La sua riflessione rispecchia il pensiero condiviso dai vescovi che oggi daranno voce all’anima cristiana della gente.

Cosa vuole dire alla Sardegna e ai sardi il vostro Messaggio?
In questi mesi abbiamo sofferto con la nostra gente e ne abbiamo condiviso paure e fragilità, ora volevamo incoraggiarla a ripartire e, mantenendo la prudenza, invitarla a guardare con fiducia al futuro. Desideriamo anche dar voce alle persone in difficoltà, voci che ci giungono come un appello particolarmente dalle famiglie, dalla scuola e dal mondo del lavoro.

Che significato può avere oggi per la gente un gesto come quello che compite a Bonaria?
E’ la nostra patrona, e il suo sguardo di Madre ci aiuta a ritrovare più autenticamente i nostri. Lo stesso colle dove è collocata la Basilica sembra invitarci continuamente a scrutare gli orizzonti, a vedere oltre questo tempo e a scoprire, grazie alla fede, un sguardo unitario per la nostra terra, spaziando dal cielo alla terra, dal presente al futuro.

Cos’ha imparato la Chiesa sarda dall’esperienza della pandemia? E quale contributo offre ora alla regione?
Direi che più dei contagi e dei morti, inferiori ad altre regioni, il virus ci ha fatto riscoprire delle risorse morali e di fede che, pur presenti, non sempre erano evidenti. Penso alla solidarietà che, oltre che vissuta privatamente si è manifestata con gesti di generosità pubblici verso i più poveri; ma anche al grande rispetto che abbiamo dimostrato verso le disposizioni che ci venivano richieste, rinunciando così a momenti e gesti che facevano parte delle nostre tradizioni. E inoltre anche da noi la Chiesa – parrocchie e diocesi – si è interrogata sul linguaggio migliore per parlare al suo popolo in questo tempo.

Il vescovo Antonello Mura, presidente dell’episcopato sardo

Il vescovo Antonello Mura, presidente dell’episcopato sardo - .

Nel vostro Messaggio parlate di «virus della vita», contrapposto a quello che lavora per distruggere. Cosa occorre perché si contagi, vincendo i fondati timori per il futuro?
Occorrono idee originali e progetti nuovi. Perché la ripetizione di quanto fatto nel passato non basterà più. Finora abbiamo creduto che sguardi limitati e interessi di parte, in ogni campo, potessero comunque salvarci. Non sarà più così, credo. Vale per la politica e per l’economia, ma anche per la sanità e la cultura. Per non parlare del turismo, carta che la Sardegna continua a giocare ben poco se pensiamo a quanto ha ricevuto in dono. La bellezza del territorio e le sue potenzialità meritano una creatività che sappia guardare lontano.

Cosa chiedete come vescovi alle istituzioni, alla politica e all’economia della regione?
Chiediamo quello che chiede la nostra gente, come afferma anche il messaggio che indirizziamo dalla Basilica di Bonaria. La Sardegna non è solo un bel palcoscenico estivo, che tra l’altro nessuno può vantarsi di aver creato. Ha anche bisogno di persone che, mantenendo alti i valori storici dell’autonomia e senza giustificare nessun tipo di isolamento, creino condizioni perché – ad esempio – i giovani non debbano andar via per realizzare i loro sogni e perché le zone interne non rimangano emarginate. C’è anche bisogno che chi vive in Sardegna ritrovi fiducia, allietando il futuro di nuove nascite, con famiglie finalmente incoraggiate attraverso idonee scelte di politica familiare. Senza dimenticare i trasporti, una piaga non solo per chi arriva dal resto d’Italia ma per la viabilità al nostro interno. Invece di aiutare i paesi piccoli con incentivi fine a se stessi, bisognerebbe offrire agli abitanti la possibilità di raggiungere senza difficoltà i luoghi di lavoro o di studio, per poi facilmente rientrare a casa.


Da 650 anni la Madonna venerata a Cagliari indica la rotta da seguire e protegge i sardi

«Se vogliamo essere cristiani, dobbiamo essere mariani». San Paolo VI il 24 aprile del 1970 a Cagliari così definiva il legame inscindibile tra i sardi e la Vergine di Bonaria. Quattro Pontefici in meno di mezzo secolo sono stati pellegrini sul colle che domina il Golfo di Cagliari, rendendo omaggio alla Madonna con il bimbo in braccio e la candela, guida sicura dei naviganti. Edificato per volere dell’infante Alfonso nel 1324 durante l’assedio di Castel di Castro (l’attuale quartiere di Castello) sul colle detto in catalano di «Bon Aire» (buona aria), il santuario nel 1370 accolse il simulacro giunto sulla spiaggia in maniera miracolosa. Il termine «Bon Aire» evoca Buenos Aires, per questo papa Francesco nel settembre 2013 venne pellegrino poco dopo l’inizio del pontificato. I Mercedari sono tuttora custodi del santuario, della Basilica (XVIII secolo) e del culto alla Vergine, patrona massima della Sardegna. (R.Comp.)


Tutto il Paese vive una fase di speranze e di incertezze. Cosa dice la fede cristiana in un tempo così difficile?
Questo tempo ci chiede prima di tutto di non evitare di interrogarci, perché la stessa fede ha dovuto prendere atto di diversi cambiamenti nella pastorale, nell’immagine dei sacerdoti e dello stesso vescovo, oltre che nell’uso dei beni. In futuro inciderà ad esempio un dato di questi mesi: quello che ha visto venir meno diversi servizi pastorali (culto, catechesi, eventi, oratori...) e contemporaneamente emergere però una presenza inedita dei sacerdoti (e del vescovo) accanto alla gente, con più creatività, generosità e discrezione. Così come, per quanto riguarda l’uso dei beni, le difficoltà economiche della gente, destinate ad aumentare, ci costringeranno a fare per necessità quello che non abbiamo fatto per scelta, realizzando così una coraggiosa chiarezza sul loro uso. La stessa struttura parrocchiale andrà ripensata a favore di un funzionamento reale di Chiesa locale, con comunità che privilegiano più autenticamente la prossimità e la sensibilità alla sequela di Gesù.

La sintesi del Messaggio dei vescovi sardi sull’uscita dall’emergenza coronavirus

Affidato a un versetto di Isaia («Consolate, consolate il mio popolo...») il compito di riassumerne il senso in un’immagine, i vescovi della Sardegna sviluppano nel loro Messaggio diffuso il 2 giugno dal santuario di Bonaria una riflessione su «La fede e il futuro del nostro popolo nel tempo della prova» levando la voce della Chiesa «per interpretare e accompagnare tutte le altre voci che giungono dalle famiglie, dalle realtà associative, dalla scuola e dal mondo del lavoro». E’ la condivisione profonda del momento attraversato dall’Isola che si coglie in un testo (l’integrale è su Sardegna.chiesacattolica.it) nel quale i vescovi avvertono «come nostro compito, dopo aver ripreso con gioia le celebrazioni pubbliche della fede, quello di far rifiorire nel nostro popolo la speranza nel futuro, soprattutto quando ci giungono – talvolta disperatamente – appelli da persone in difficoltà, alla cui attenzione come Chiesa stiamo dedicando tutto il nostro impegno». In Sardegna come altrove il virus ha fatto compiere «l’esperienza della fragilità personale e collettiva», presentando ora il conto con «gli evidenti riflessi che l’epidemia sta avendo sulla nostra economia e sull’occupazione» logorando «la preesistente e fragile situazione della nostra Isola», tanto che «non è sbagliato affermare che l’emergenza sanitaria sia diventata un’autentica emergenza sociale». Per questo «appare necessario che la politica, l’economia, la sanità, la giustizia e la cultura si mettano in gioco, preparando una terapia adatta che consenta al nostro popolo un respiro ampio e rigenerante», superando «sguardi limitati, interventi con il fiato corto e la lentezza nel passare dalle promesse ai fatti». Lanciato un appello per le scuole paritarie, i vescovi chiedono il coraggio di «idee innovative» – ad esempio nel turismo – perché la Sardegna «accogliente e solidale» diventi «un modello da imitare» compiendo «una svolta significativa della sua storia», il «modello di una società che sa rigenerarsi e rinnovarsi». Servono segnali. Come quello che i vescovi offrono donando 30mila euro al Centro di accoglienza Il Gabbiano della Comunità Padre Monti a Oristano.

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