martedì 7 ottobre 2014
​Il Sinodo non è esercitazione accademica o campo di battaglia
di Pierangelo Sequeri  
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 E ci sono pure «i traduttori», nei ringraziamenti! La prima grande lezione di elementare stile cristiano, che ha inaugurato, ieri, i lavori della prima Congregazione generale del Sinodo, sta anzitutto nelle calde parole di ringraziamento di Papa Francesco per tutti coloro che hanno «lavorato instancabilmente» e «continuano a lavorare per il buon esito del presente Sinodo». Tutti, senza dimenticare i traduttori e il personale. Il ringraziamento contiene anche, nella forma più affettuosa, un importante ammonimento. Il Sinodo è un lavoro, e ci si va per lavorare. Non è un evento di circostanza, non è un gioco delle parti, non è una passerella d’onore, non è un’esercitazione accademica, non è un campo di battaglia.

Nulla di tutto ciò. Qui si viene per prendere le medicine necessarie – creandole, se necessario – e non certo per rifornirsi di armamenti. È il lavoro dello Spirito e delle Chiese, il lavoro della Chiesa. Il ministero del lavoro evangelico, serio e rischioso, appassionante e duro, è un tratto elementare dello stile evangelico inculcato da Gesù ai suoi Apostoli, con quelle sue entusiasmanti e acuminate parabole del buon lavoro sul campo di un’umanità immensa, per la quale il Signore ha passione e compassione. Il profumo di questa passione e compassione si era potuto ascoltare e toccare, quasi, nelle parole che papa Francesco aveva pronunciato sabato sera nella Veglia di preghiera per il Sinodo, che dovrà lasciarsene impregnare. A cominciare dal suo caldo inizio, che ricordava l’ora del «ritorno a casa»: così confortevole per chi può «ritrovarsi alla stessa mensa», e riscaldare il cuore del bene compiuto e ricevuto; così pesante per chi non ha che la propria solitudine nella quale rinchiudersi, senza più sogni condivisi e vino della gioia da bere insieme. «Dobbiamo prestare orecchio – proseguiva Francesco, indirizzandosi proprio al Sinodo – ai battiti di questo tempo e percepire "l’odore" degli uomini d’oggi, fino a restare impregnati delle loro gioie e speranze, delle loro tristezze e angosce», per essere testimoni credibili della forza e della tenerezza del Vangelo: capace di generare e rigenerare la condivisione della vita. È questo il lavoro della Chiesa. È bene che siamo ammoniti sul dovere di fare un buon lavoro. Ed è bene che questa necessità ci venga ricordata, in modo franco, umile, e senza troppi giri di parole, proprio dal successore di Pietro. Questo lavoro di ascolto del popolo e di discernimento di Dio decide la qualità cristiana del confronto in assemblea. «Una condizione generale di base – ha scandito il Papa – è questa: parlare chiaro». Nel linguaggio cristiano della tradizione, è quello che si intende con parresìa: un termine greco che nelle Sacre Scritture (in Giovanni e negli Atti degli Apostoli, soprattutto) significa esporre limpidamente "tutto quello che nel Signore si sente di dover dire", senza pavidità e senza timore di esporsi al gioco dei fraintendimenti e delle strumentalizzazioni. In un’assemblea sinodale cattolica si può fare – si deve fare –, prosegue il Papa, perché, in quella stessa assemblea tutti quelli che devono parlare con franchezza sono quelli stessi che devono sentirsi impegnati, in tutta coscienza, ad ascoltare con cuore aperto e profonda umiltà «quello che dicono i fratelli». Riconosciamolo: bisognerà vincere qualche vecchia abitudine, e saper fronteggiare qualche nuova emozione, per conquistare questa purezza del cuore...Nondimeno, ha concluso il Papa (ed è qui la perla nascosta, se hai occhi e orecchi), possiamo fare questo lavoro «con tanta tranquillità e pace», perché il Sinodo «si svolge sempre cum Petro e sub Petro», e la presenza del Papa «è garanzia per tutti e custodia della fede». Questo inciso di Francesco mi ha fatto pensare a una parola di Paolo. Una volta, scrivendo agli appassionati e turbolenti cristiani di Corinto, l’Apostolo aveva dovuto ricordare loro, tentati di perdersi nel gioco del partito di questo o di quello, ognuno messo in campo come vero caposcuola della fede: «Anch’io, vorrei dire, ho il senso e il pensiero di Cristo» (1 Corinzi 2, 16). Un piccolo lampo di affettuoso monito per gli appassionati del toto-Sinodo, se non mi sbaglio, che dimenticano il prezioso ministero di Pietro e il vero lavoro della Chiesa. Soprattutto 'quelli di fuori', naturalmente. Ma non solo, come si accennava.

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