venerdì 7 marzo 2014
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Di solito, quando si guarda all’operato di un Papa, si cercano corrispondenze con i grandi personaggi della Bibbia. È successo anche di recente per Benedetto XVI, la cui decisione di continuare a servire la Chiesa con la preghiera gli ha valso l’accostamento a Mosé. Per Francesco invece, dopo un anno di pontificato, si potrebbe fare riferimento più che a una figura biblica, a un personaggio della storia romana, e cioè a Scipione l’Africano. Se riconsideriamo, infatti, questi 12 mesi, il primo dato che salta agli occhi è il cambiamento di immagine della Chiesa che il primo Papa di origine latinoamericana ha saputo suscitare. Francesco ha rotto l’accerchiamento che, non certamente per colpa del suo predecessore, la Barca di Pietro aveva subito, semplicemente spostando – proprio come a suo tempo fece il famoso condottiero romano – il terreno della contesa. Papa Bergoglio – fin da quel primo «Buonasera!» che sorprese tutti – ha in altri termini dimostrato che non sul terreno dell’etica si coglie il vero volto della Chiesa, ma su quello della misericordia. Perché, se la Chiesa è e deve essere specchio per gli uomini del volto di Dio, è proprio nella misericordia che ne cogliamo la sua vera essenza. In questo, Francesco non ha fatto altro che declinare nella vita di tutti giorni, e con atteggiamenti e linguaggi comprensibili anche dai cosiddetti “lontani”, il titolo di una bellissima enciclica di Giovanni XXIII, la Mater et Magistra, dove non a caso il termine “madre” viene prima della parola “maestra”, rispetto alla quale ha – per così dire – valore fondativo. Sì, perché la Chiesa è prima di tutto madre e in quanto tale, come tutte le madri, è anche maestra. Il terreno dell’etica, sul quale gli Annibale del terzo millennio avevano impegnato battaglia lungo tutto il Pontificato di Benedetto XVI, è solo una conseguenza. Non un dato assolutizzante. E quella che veniva dipinta come «Chiesa dei no» è in realtà la Chiesa di un grande sì all’amore e alla vita che trovano in Cristo la loro massima espressione. Papa Ratzinger lo aveva ricordato al Convegno nazionale di Verona del 2006 e in tante altre occasioni, ma la sua voce rischiava di essere soffocata dalle abili strategie degli attaccanti. Francesco, invece, ha avuto la capacità di spostare il terreno di battaglia e ha vinto. Tutti i gesti che lo hanno immediatamente posto in sintonia con gli uomini e le donne del nostro tempo si iscrivono in questa scelta. La visita a Lampedusa, la sosta nella favela di Rio de Janeiro, il chinarsi sulle ferite dei disoccupati, dei rifugiati, dei poveri, la lavanda dei piedi in carcere ai minori detenuti, le carezze agli ammalati (il mercoledì all’udienza generale o quando è andato a trovarli in ospedale), l’invito ad andare verso le periferie esistenziali e geografiche, l’esortazione rivolta ai sacerdoti affinché siano «pastori con l'odore delle pecore» (e a tal proposito proprio l’incontro con il clero romano di giovedì scorso contiene una specie di summa del Bergoglio-pensiero su questo punto) sono tutti capitoli di quella grammatica della misericordia che il Papa ha seminato a piene mani nel suo primo anno di Pontificato. La Zama del nostro tempo sta proprio qui. In questo saper incidere nel cuore dei problemi che agitano l’inizio del terzo millennio. Perciò non deve sorprendere che per un Papa che ha scelto di chiamarsi come il santo della pace si scomodi il paragone con un condottiero. Francesco sa che la battaglia con il male è sempre in corso e che la misericordia divina di cui egli è il portabandiera è per il peccatore, mai per il peccato. La sua condanna della corruzione, il suo puntare il dito contro la «cultura dello scarto», la sua difesa della famiglia ci dicono che l’etica non è abolita (come qualcuno vuol far credere), ma che è una conseguenza dell’amore di Dio per le sue creature. Jorge Mario Bergoglio è perciò anche il Papa (vale la pena di non dimenticarlo) che sta aiutando gli uomini e le donne di oggi a riscoprire il senso del peccato in una società che lo aveva artatamente eliminato dall’orizzonte umano, con le conseguenze nefaste che sono sotto gli occhi di tutti. Alla fine la vera battaglia è proprio questa. E l’immagine di una Chiesa che cura le ferite è la più calzante che Francesco-Scipione poteva usare.
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