domenica 10 ottobre 2010
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Arleen ha 25 anni, viene dall’India e fa parte del gruppo «Giovani adulti» della parrocchia di Saint Francis a Jebel Ali, periferia di Dubai. Theresa, pakistana, è catechista della Cattedrale di Saint Joseph, ad Abu Dhabi, mentre Joy, anche lui indiano, 27enne del Kerala, è animatore del gruppo carismatico «Jesus Youth» in uno dei labour camp – le città ghetto – di Mussapha, la zona industriale della capitale, dove vive insieme a migliaia di lavoratori-schiavi, immigrati negli Emirati in cerca di un futuro.Nel resto del mondo, molti non si immaginano nemmeno che esistano. Eppure loro, i cristiani del Golfo Persico, sono in tanti e crescono senza sosta. Nel Vicariato d’Arabia, che con i suoi tre milioni di chilometri quadrati è il più esteso al mondo – oltre agli Emirati Arabi comprende il Qatar, il Bahrain, l’Arabia Saudita, l’Oman e lo Yemen, mentre il Kuwait è un Vicariato a sé – i battezzati sono milioni. Secondo stime ricavate dal Rapporto 2009 del Dipartimento di Stato americano sulla libertà religiosa, integrato da fonti "dirette", in tutta la Penisola arabica (Vicariato d’Arabia più Vicariato del Kuwait) i cattolici sono circa tre milioni. I seguaci di Gesù rappresentano, nei diversi Paesi, tra il sette e il dieci per cento della popolazione, ma semplici calcoli empirici suggeriscono che negli Emirati superano addirittura il 30 per cento degli abitanti. Fanno parte di quegli immigrati che, dopo il boom petrolifero, hanno cominciato a riversarsi nella regione. E non hanno mai smesso, visto che il Golfo continua ad importare dall’estero sia le «braccia», sia i «cervelli» indispensabili alla sua crescita continua: in certe zone degli Emirati i migranti sono l’80% della popolazione. Mentre tutto il Medio Oriente, quindi, assiste al drammatico esodo dei cristiani, proprio nella Penisola arabica, che secondo la Sunna è terra sacra all’islam, il loro numero aumenta. E la loro presenza, sebbene discreta, è viva ed entusiasta.«Periferici? Noi non ci sentiamo affatto periferici!». Le parole di Susan, incontrata a un gruppo di preghiera carismatico nella parrocchia di Saint Michael, nell’emirato di Sharjah, chiariscono bene la vivacità e il protagonismo vissuti da una Chiesa che, vista dall’Occidente, potrebbe apparire marginale. Una percezione decisamente fuorviante. A Saint Michael, per esempio, le iniziative pastorali dedicate alle coppie e alle famiglie sono frequentatissime: i gruppi di preghiera – dalla scuola della Parola in lingua malayalam agli incontri per le comunità africane o tamil – sono quarantuno. Questi numeri – e questo mix di popoli – tra le comunità cristiane del Golfo Persico rappresentano la norma. Si dice che la parrocchia di Dubai, con i suoi 200 mila fedeli, sia tra le più grandi del mondo. I ragazzi che da tutta la città convergono ogni settimana nel compound (il complesso delle strutture parrocchiali) di Saint Mary per la catechesi sono oltre quattromila. Nella Cattedrale di Abu Dhabi, invece, al venerdì (qui il giorno di festa si adegua ai ritmi dell’islam) si celebrano dieci Messe: si comincia alle 6 e mezza di mattina mentre l’ultima celebrazione, quella in arabo, è alle 20,15. In mezzo, Messe in inglese, tagalog, konkani, urdu, seguite spesso da incontri di preghiera e momenti conviviali in cui i membri delle varie comunità, spesso lontani dalle proprie famiglie, scacciano la nostalgia di casa. Per farsi un’idea di che cosa sia la vita in una grande parrocchia del Golfo, basta scorrere lo schema usato da padre Muthu, parroco della Cattedrale, per calcolare il «numero di ostie da preparare per le celebrazioni»: la media è di trentamila particole alla settimana.Questa, però, è sola una faccia della medaglia. «I numeri così vistosi – fa notare padre Eugenio Mattioli, cappuccino di origine fiorentina e parroco di Saint Francis, da 52 anni in queste terre – rispecchiano la concentrazione dei fedeli causata dalla scarsità dei luoghi di culto esistenti!». La difficoltà a ottenere spazi per nuove chiese è uno dei crucci più sentiti tra le comunità del Golfo, dal Qatar – dove la prima chiesa cristiana è sorta, dopo tanta attesa, solo due anni fa – fino al Kuwait. «Lo stesso terreno su cui è costruita la cattedrale di Kuwait City non ci appartiene – racconta il vicario apostolico di Kuwait, il comboniano Camillo Ballin –. Siamo tenuti a pagare un affitto simbolico e non abbiamo garanzie di poter restare qui anche in futuro».La precarietà, da queste parti, è vita quotidiana. E non solo perché i cristiani, in quanto stranieri, sono obbligati ad abbandonare il Paese allo scadere del contratto di lavoro e comunque all’età della pensione. Soprattutto, la libertà di cui godono in tema di pratica religiosa è limitata agli stretti confini del complesso parrocchiale: non sono ammesse processioni, né simboli religiosi evidenti, né crocifissi in cima alle chiese. Eppure, proprio in terra d’Arabia, dove le campane non suonano mai, lo Spirito soffia. «La nostra fede è più forte qui che in patria!», esclama Nila Sanchez Bandigan, immigrata filippina che vive ad Abu Dhabi da 28 anni. «A casa frequentavo la parrocchia frettolosamente, dandola in un certo senso per scontato. Qui, come tanti miei connazionali, ho invece riscoperto la gioia di essere parte attiva della Chiesa».
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