venerdì 11 ottobre 2019
Missionario del Pime, è in Brasile da 40 anni e da 20 è vescovo di Parintins. «Curare le ferite dei poveri»
Il vescovo Giuliano Frigeni (Vatican News)

Il vescovo Giuliano Frigeni (Vatican News)

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«L’Amazzonia parla attraverso la voce di chi ama questa terra». Tiene sul petto una croce fatta di corda e la sua voce si fa ascoltare tra gli scrosci di una pioggia tropicale. Monsignor Giuliano Frigeni, missionario del Pime, è in Brasile da quarant’anni e da venti è vescovo di Parintins, la diocesi nel cuore dell’Amazzonia che si stende interamente nella foresta, tra gli affluenti del Grande Fiume che danno alimento a cinquecento comunità e ai villaggi del popolo indigeno Sateré-mawé. Il vescovo missionario è ora entrato anche nell’avventura del Sinodo.

Perché la Chiesa mostra una sollecitudine così intensa per l’Amazzonia?
Già Paolo VI, nel 1972, incontrando tutti i vescovi dell’area, comprese l’importanza dell’ Amazzonia sia dal punto di vista ecclesiale che per il destino dell’umanità sulla terra. Fu per primo Paolo VI a rendersi conto, dopo il Concilio, della sua importanza. L’Amazzonia è un po’ il primo capitolo della Genesi, cioè il prodigio mirabile della creazione, uscita come un dono dalle mani di Dio. E poi è anche il capitolo terzo, dove questo dono gratuito della creazione viene posto nelle mani degli uomini e della loro libertà.

Ma cosa insegna a noi questa regione? Perché ci riguarda tutti?
È evidente, oggi più che mai, la presenza di progetti frutto di avidità e speculazione. Usurpano, invadono, distruggono, avvelenano i fiumi. Prima di arrivare ho visto più di trenta camion carichi di tronchi altissimi: vengono portati chissà dove e con il permesso di chissà chi. Ci sono problemi gravissimi. La grave crisi sociale e ambientale oggi dell’Amazzonia insegna che l’economia non deve essere il comandante dell’umanità. Il problema vero non è la destra o la sinistra ma un sistema economico in cui comandano sempre i grandi potentati che sottomettono tutto ai loro interessi. Guardare questa realtà ci offre la possibilità di riscoprire la difesa del dono della vita. La vita umana, la vita che c’è qui come quella in qualsiasi altra parte del pianeta, perché non sia soggiogata al lucro e al guadagno.

Il Sinodo pone un accento rilevante sulla catastrofe ambientale che incombe sull’Amazzonia. Ma c’è chi dice che questo non c’entra niente con l’annuncio di Cristo…
Lo sguardo espresso nella enciclica Laudato si' ha manifestato che la sollecitudine della Chiesa non può ignorare i problemi e le sofferenze presenti e futuri provocati da quelli che usurpano, invadono, avvelenano i fiumi, distruggono l’ambiente. La passione evangelica per gli uomini e le donne si esprime anche nella premura fattiva per curare le ferite dei poveri. Nella Laudato si', l’emergenza ecologica è parte della missione di liberazione integrale a cui è chiamata la Chiesa che vuole essere fedele al Vangelo. Ma vedo tanti discorsi su questo Sinodo. E credo che dobbiamo guardare alla bussola.

Quale bussola?
Quello che dice il Papa nell’Evangelii gaudium: questo è un Sinodo per interrogarsi su come annunciare il Vangelo di Gesù in Amazzonia. Valorizzando le culture e tutto ciò che di bello c'è nelle tradizioni indigene, senza dimenticare che è l’incontro con Gesù Cristo a donare pienezza a tutto questo. Dando una risposta vera anche ai gravi problemi che questa terra attraversa.

Secondo lei qual è l’approccio giusto per evitare che il Sinodo si trasformi nella solita contrapposizione di stereotipi intorno all’agenda preconfezionata di “temi sensibili” più gettonata sui media?
Non può che essere l’ascolto di questa realtà. L’ascolto reale delle popolazioni dell’Amazzonia e del rapporto unico che vivono con questo ambiente. Non imporre idee o schemi, ma ascoltare, è l’unica strada per capire. Anche per me, quando sono arrivato, per iniziare a capire c’è voluto tanto tempo. In diocesi ho un seminarista indio, di etnia Satere-mawé. L’ho mandato a studiare filosofia in un seminario nel sud del Brasile. E per lui è una gran fatica, perché sono categorie e concetti di cui nella foresta non ha mai sentito parlare. Qualche tempo fa sono andato a trovarlo per vedere come stavano andando le cose. Gli ho chiesto: che cosa ti manca di più? E lui mi ha risposto: il silenzio. E poi mi ha detto un’altra cosa che mi ha fatto pensare: “Qui quando si parla non ci si ascolta davvero, sono tutti preoccupati di quello che ciascuno deve dire. Da noi invece se uno parla gli altri lo ascoltano”. Ed è vero: quando vai alle loro assemblee, quando si riuniscono per decidere qualcosa, durano ore perché bisogna ascoltare tutti. L’Amazzonia parla attraverso la voce di chi ama questa terra e questi uomini e non nella voce di chi fa richiami amazzonici per far prevalere le proprie opinioni o i propri progetti.

Si batte il tasto sulla questione dei viri provati. Dicono che siano necessari, perché nella cultura indigena non esiste il celibato. Si può fare? È legittimo o no discuterne nel Sinodo?
Ci sono i sacerdoti sposati anche in altri riti cattolici. Ed è legittimo discutere in Sinodo della possibile ordinazione sacerdotale di laici di genere maschile, soprattutto per garantire i sacramenti a chi si trova lontano e per i sacerdoti è difficile raggiungerli di frequente. Si discute di questo, ma è strettamente circoscritto al caso dell’Amazzonia o a situazioni analoghe. E certo non può essere usato strumentalmente per dire che adesso «i preti si sposano» e conviene abolire il celibato anche nella Chiesa cattolica di rito latino.

La valorizzazione delle culture indigene è un tema del Sinodo. Come conviene affrontarla?
La Chiesa richiama l’urgenza di salvaguardare dai neocolonialismi, dai processi di dissipazione delle culture dei popoli originari perché confida che la luce di Cristo può rendere più grande e feconda la vocazione degli uomini e delle terre amazzoniche. Io ho in mente quanto è successo nella mia diocesi con gli indios Sateré-mawé del Rio Andirà. Quando quarant'anni fa è arrivato da loro padre Enrico Uggé, mio confratello, erano poche centinaia e rischiavano di scomparire. Lui è stato lì con loro, è stato testimone del Vangelo in mezzo a loro, è entrato con rispetto e ha studiato la loro cultura e li ha aiutati a difendere i loro diritti, ma insieme ai loro capi ha scommesso sull’educazione, creando una scuola che permetta loro di stare nel mondo di oggi. Il risultato è che oggi quegli indios sono 12 mila. Questa è la strada da seguire, non il mito della purezza del buon selvaggio che non esiste. E gli anziani indigeni oggi dicono a padre Enrico: “Affidiamo a te i nostri giovani, perché tu li difendi davvero dall’alcol, dalla droga e da tutto quanto di sbagliato arriva dalla città”. L’Amazzonia ha bisogno del Vangelo. Come ne abbiamo bisogno tutti, per curare le ferite, cambiare lo sguardo verso noi stessi, il mondo e l’ambiente.

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