sabato 26 marzo 2016
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Isacerdoti sono chiamati a essere «testimoni e ministri della misericordia » e hanno il «dolce e confortante compito di incarnarla come fece Gesù». Misericordia che, spiega papa Francesco nella Messa del Crisma, «restaura tutto e restituisce le persone alla loro dignità originaria» dopo il peccato e l’errore. Eppure può accadere che i presbiteri diventino «ciechi» per «un eccesso di teologie complicate», che la loro anima «se ne vada assetata di spiritualità» per «un eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”» e che si sentano «anche prigionieri» a causa di «una mondanità virtuale che si apre e si chiude con un semplice click» o che ancora possano percepirsi «oppressi» per il «fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sen- tieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori». Papa Bergoglio sceglie la Messa celebrata la mattina del Giovedì Santo nella Basilica di San Pietro durante la quale vengono benedetti gli oli santi e nella quale i preti (in questo caso soprattutto il clero romano) rinnovano le promesse fatte nel giorno dell’ordinazione per ribadire l’inscindibile legame fra il sacerdozio e la misericordia. Nella sua riflessione il Pontefice richiama all’impegno di «comunicare la misericordia di Dio a tutti gli uomini, praticando le opere che lo Spirito suscita in ciascuno per il bene comune di tutto il popolo fedele di Dio». Popolo che, ricorda Francesco, può essere «povero, affamato, prigioniero di guerra, senza futuro, residuale e scartato» e che «il Signore trasforma in popolo sacerdotale». Per questo, osserva il Papa, i sacerdoti sono tenuti a identificarsi «con quel popolo scartato, che il Signore salva» e devono ricordarsi «che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono». Nell’omelia Bergoglio invita i preti (ma anche tutta la comunità ecclesiale) ad avere una «sana tensione tra una dignitosa vergogna e una dignità che sa vergognarsi». È l’«atteggiamento di chi per se stesso cerca di umiliarsi e abbassarsi, ma è capace di accettare che il Signore lo innalzi per il bene della missione, senza compiacersene». Il modello indicato dal Papa è Pietro che sa «confessare il suo peccato» e «chiedere di allontanarsi» mentre il Signore «lo eleva alla dignità di pescatore di uomini». «Noi, invece – chiarisce –, tendiamo a separare i due atteggiamenti: quando ci vergogniamo del peccato, ci nascondiamo e andiamo con la testa bassa, come Adamo ed Eva, e quando siamo elevati a qualche dignità cerchiamo di coprire i peccati e ci piace farci vedere, quasi pavoneggiarci». Ciò che serve è avere uno stile che «ci salva dal crederci di più o di meno di quello che siamo per grazia». Altro approccio da recuperare è quello della «festa» da celebrare dopo l’incontro con la grazia di Dio. Si domanda provocatoriamente il Papa: «Dopo essermi confessato, festeggio? O passo rapidamente ad un’altra cosa, come quando dopo essere andati dal medico, vediamo che le analisi non sono andate tanto male e le rimettiamo nella busta e passiamo a un’altra cosa». Francesco sottolinea anche il paradosso di «pregare un Dio sempre più misericordioso» che «aiuta a rompere quegli schemi ristretti nei quali tante volte incaselliamo la sovrabbondanza del suo cuore». Inoltre chiarisce che «ci fa bene uscire dai nostri recinti» e che «il Signore preferisce che tanti semi se li mangino gli uccelli piuttosto che alla semina manchi un solo seme». C’è inoltre un richiamo al fatto che Cristo è «segno di contraddizione». Tuttavia ciò non significa che «Gesù combatte per consolidare uno spazio di potere». Al contrario, nota Bergoglio, «se mette in discussione sicurezze è per aprire una breccia al torrente della misericordia che, con il Padre e lo Spirito, desidera riversare sulla terra». Giacomo Gambassi © RIPRODUZIONE RISERVATA
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