lunedì 3 settembre 2012
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​Il cardinale Carlo Maria Martina era una persona che lasciava un’impressione non passeggera. Trovo conferma di questo ripercorrendo diverse momenti dal suo episcopato a Milano.Tra il 1982 e il 1983 andavo spesso in aereo a Roma in giornata per gli incontri alla Cei sul tema missionario o per il «Comitato ecclesiale per la fame nel mondo». Un mattino mi trovavo in coda all’imbarco, quando mi sentii chiamare. Era il cardinale Martini, che mi chiese dove ero diretto e mi disse: «Vieni con me, così ci conosciamo meglio». Così sull’aereo ci sedemmo accanto e, dopo la preghiera personale col breviario, rivolsi all’arcivescovo una domanda. Dopo una breve risposta Martini subito mi disse: «Parlami tu della tua vita di missionario giornalista». Io allora cominciai a parlare infervorandomi con entusiasmo, tanto che Martini mi disse: «Perché ti scaldi tanto? Raccontami con calma». Ricordo questo fatto perché mi stupì la capacità che aveva – lui che sembrava così freddo e distaccato – di dare confidenza, di farmi sentire a mio agio. Mi colpì, poi, anche la sua curiosità per il mondo dei missionari. Parlammo di numerosi argomenti: di cosa convince un pagano a convertirsi a Cristo o di come avviene il passaggio da una religione all’altra e molto altro. Insomma, era l’opposto di come avevo immaginato: lui faceva domande io rispondevo.Un altro episodio significativo risale alla morte di Marcello Candia il 31 agosto 1983. Il giorno prima Martini l’aveva visitato alla Clinica San Pio X ed era rimasto impressionato dalla sua sopportazione della sofferenza atroce del cancro al fegato. Al funerale, poi, disse parole commosse. Quando pubblicai la biografia «Marcello dei lebbrosi» la consegnai personalmente all’arcivescovo. Qualche mese dopo mi disse: «Ho letto la biografia di Candia. Era veramente un santo! Ma sai il capitolo che mi è piaciuto di più? Uno degli ultimi intitolato "Santo nonostante se stesso", nel quale parli dei difetti di Marcello, della sua natura che rendeva non facile il viverci assieme, dei suoi scrupoli. Lo rendi un uomo come gli altri, non un santo imbalsamato da nicchia. Grazie!». Fu poi proprio il cardinale Martini ad appoggiare la proposta della sua causa di beatificazione.Nel 1985 il cardinale mi mandò all’Assemblea nazionale della Chiesa italiana a Loreto, come uno dei rappresentanti della diocesi ambrosiana. L’anno seguente ricevetti una telefonata dalla Curia per chiedermi di far parte del Consiglio pastorale diocesano di Milano per i sei anni seguenti. Risposi positivamente, ma subito aggiungendo: «Dite all’arcivescovo che io non so quasi nulla della diocesi di Milano. Ci vivo da molti anni, esercito il ministero sacerdotale, ma non seguo la vita della diocesi essendo impegnato nel conoscere e descrivere il mondo missionario». Poco dopo mi telefonò il cardinale: «Padre Gheddo – mi disse –, ti metto io nel Consiglio affinché tu porti in diocesi la vita e le voci delle missioni. Credo che abbiamo molto da imparare dalle giovani Chiese. Penso che tu abbia raccolto molti esempi e novità di vita che le Chiese fondate dai missionari possono oggi dare a noi come stimolo per la nostra conversione al Vangelo». Nel Consiglio pastorale diocesano, che per me rappresentò un’esperienza positiva, si fissavano i temi e si discutevano prima negli incontri di decanato e poi nell’incontro mensile del Consiglio stesso alla Villa Sacro Cuore di Triuggio, dal sabato pomeriggio alla domenica dopo pranzo. L’arcivescovo era sempre presente con una costanza ammirevole. Dimostrava di avere un’intelligenza e una memoria non comuni, riassumendo e sintetizzando gli interventi e proponendo per il giorno dopo i temi da approfondire. Un altro ricordo risale sempre alla metà degli anni Ottanta. Con una giunta socialista in Comune, gli ospedali e le cliniche cattolici erano pesantemente penalizzati da controlli continui. Il dottor Pasquale Cotza, direttore sanitario della «Columbus», ospedale delle Suore della Madre Cabrini (di cui ero aiutante del cappellano), mi diceva: «Tutte le settimane abbiamo controlli dei Carabinieri, della Polizia, dei Vigili del fuoco, dei Nas. Ci fanno cambiare le porte e altre strutture, hanno dato perfino una multa salata perché il pavimento della cucina è scivoloso». Le suore, già in crisi di vocazioni, avevano intenzione di vendere la clinica e chiesero il parere al cardinale, il quale andò a trovarle rivolgendo loro un discorso chiaro e forte che ascoltai di persona: «C’è un piano per statalizzare gli ospedali cattolici – disse –, dobbiamo reagire. Sorelle, non cedete, l’assistenza sanitaria cattolica ha un valore esemplare in città e ha una grande tradizione». Le suore non vendettero solo grazie al sostegno dato dall’arcivescovo.Il 2 dicembre 1992, infine, alla vigilia della memoria di san Francesco Saverio, il cardinale Martini venne al Pime di Milano ad aprire il primo incontro di missionari dell’Istituto impegnati nei mass media in vari Paesi. Ci disse che le lettere di san Francesco Saverio dall’Oriente erano capaci di suscitare interesse e slancio per le missioni e ancor oggi, aggiungeva, «hanno una forza comunicativa straordinaria». Poi ci chiese: «Noi vorremmo che la nostra stampa missionaria fosse sempre così, cioè che avesse sempre questa forza comunicativa del Vangelo proprio attraverso la comunicazione delle notizie sulla diffusione del Vangelo. In altre parole, io credo che il popolo cristiano, leggendo le riviste missionarie, dovrebbero poter esclamare: "Come sono belli i piedi del messaggero di lieti annunzi che annuncia la pace". Ora io chiedo a voi: ridateci questo stupore del Vangelo, datelo alle nostre comunità, datelo non soltanto alle terre di missione, ma anche a noi. Siate come san Francesco Saverio tramite fra le Indie, le terre lontane e le terre d’Europa, perché questo stupore riscaldi il cuore di tutti». Mi trovai in piena sintonia con il cardinale.
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