giovedì 7 febbraio 2019
Nell'aula Paolo VI l'incontro con gli agenti di custodia, medici, educatori, amministrativi, cappellani e volontari del carcere romano di Regina Coeli, visitato a marzo 2018
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Papa Francesco ha incontrato in aula Paolo VI, 600 tra agenti di custodia, medici, educatori, amministrativi, cappellani e volontari “al servizio dei detenuti” del carcere romano di Regina Coeli, visitato a marzo 2018. Col vostro lavoro, dice, può diventare “un luogo di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita”

Il difficile compito di curare le ferite

«Il carcere è luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità». È il passaggio centrale del discorso che papa Francesco ha pronunciato nell’udienza concessa al personale della casa circondariale Regina Coeli di Roma. «Esprimo a ciascuno la riconoscenza mia e della Chiesa per il vostro lavoro accanto ai reclusi – ha detto ancora il Papa –: esso richiede fortezza interiore, perseveranza e consapevolezza della specifica missione alla quale siete chiamati». All’udienza erano presenti circa 600 persone, accompagnati dal cappellano padre Vittorio Trani e dalla direttrice del carcere Silvana Sergi. A tutti Francesco ha voluto ricordare come il loro impegno non sia legato al solo compito di far scontare la pena a chi ha sbagliato, ma di essere «chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale». Una sottolineatura importante che pone sotto una luce differente l’operato del personale del penitenziario: non semplici carcerieri, ma persone chiamate a porsi accanto ad altre persone che hanno commesso degli errori per «un’azione di grande sostegno per la rieducazione dei detenuti».
Il carcere come luogo di riscatto
Ma nel suo discorso pur chiedendo che il carcere «diventi un luogo di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita», non nasconde alcune oggettive difficoltà: «Lo stress lavorativo determinato dai turni pressanti e spesso la lontananza dalle famiglie sono fattori che appesantiscono un lavoro che già di per sé comporta una certa fatica psicologica – sottolinea Francesco –. Pertanto, figure professionali come le vostre necessitano di equilibrio personale e di valide motivazioni costantemente rinnovate». Del resto, aggiunge subito il Papa «siete chiamati non solo a garantire la custodia, l’ordine e la sicurezza dell’istituto, ma anche molto spesso a fasciare le ferite di uomini e donne che incontrate quotidianamente nei loro reparti».

«Le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate – ribadisce nel suo discorso il Papa –, ed è doloroso invece sentire che tante volte sono considerate come luoghi dove imperversano le cattiverie umane». Allo stesso tempo, «non dobbiamo dimenticare che molti detenuti sono povera gente, non hanno riferimenti, non hanno sicurezze, non hanno famiglia, non hanno mezzi per difendere i propri diritti, sono emarginati e abbandonati al loro destino. Per la società i detenuti sono individui scomodi, sono uno scarto, un peso». Al contrario, prosegue il Pontefice, «ogni pena, non può essere chiusa, deve avere sempre “la finestra aperta” per la speranza, da parte sia del carcere sia di ogni persona». Anche per gli ergastolani, perché «una pena senza speranza non serve, provoca nel cuore sentimenti di rancore, di vendetta, e la persona esce peggio di come è entrata». Un incontro quello di ieri in Aula Paolo VI che suggella – è stato il saluto del cappellano don Vittorio Trani – «quasi un completamento» della visita del Pontefice nel carcere di Trastevere il 29 marzo scorso, in occasione del Giovedì Santo.


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