martedì 5 aprile 2016
Dopo l'esperienza in Vaticano tornò a Milano dopo un ritiro nell'eremo costruito da Charles De Foucald nel deserto. Come per l'eremita francese, povertà e generosità per gli altri furono la cifra del suo impegno.
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Il 5 aprile di dieci anni fa, in una clinica milanese, dopo un periodo segnato dalla sofferenza, ma anche dalla vicinanza dei familiari e di amici, si spegneva monsignor Pasquale Macchi. Ricordare questo anniversario significa non solo non dimenticare l’ex segretario di Paolo VI, l’arciprete del Sacro Monte di Varese o il delegato pontificio a Loreto, ma soprattutto un prete ambrosiano che ha servito la Chiesa in momenti cruciali e come esecutore testamentario di papa Montini ci ha trasmesso larga parte della sua eredità – oggi custodita soprattutto nell’Istituto Paolo VI di Concesio (Brescia) e nella Fondazione Ambrosiana Paolo VI alla Gazzada (Varese). A lui poi dobbiamo almeno un paio di libri che, spesso tra le righe, paiono voler dire più di quanto l’autore riporta: Paolo VI nella sua parola (Morcelliana 2001, ristampato l’anno scorso) e Paolo VI e la tragedia di Moro (Rusconi 1988). Approdato in Seminario da una famiglia religiosa – un padre sarto e la madre casalinga, sette figli – e passando attraverso l’oratorio e la direzione spirituale di monsignor Carlo Sonzini, ordinato sacerdote dal cardinale Ildefonso Schuster a Milano nel 1946, laureatosi in lettere alla Cattolica (con una tesi su Bernanos), dopo aver insegnato francese nel Seminario minore di Seveso, con diversi soggiorni estivi a Parigi (dove conobbe personaggi come Pezeril, Ancel, Guitton, Maritain, Rouault, Chagall, ecc.), don Pasquale vide la svolta della sua vita con la nomina a segretario dell’arcivescovo di Milano, Montini, nel 1954. «Dovremo lavorare assai e camminare parecchio» gli aveva scritto il futuro Paolo VI prima dell’ingresso. Gli sarebbe stato accanto nei dieci anni in terra ambrosiana, poi nei quindici anni in Vaticano. 

Preziosa la sua opera di collegamento con i sacerdoti ammalati o i parroci delle periferie cui fece pervenire l’attenzione dell’arcivescovo che accompagnava nelle fabbriche, nelle parrocchie, negli ospedali, nei convegni, tra i poveri della città, aiutandolo a conoscere la realtà della vasta diocesi: dalle comunità ecclesiali alle carceri, dal mondo del lavoro a quello della cultura. Poi ecco don Macchi accanto al neoeletto Paolo VI, confermato subito nel suo ruolo di segretario. «Da quel momento tutto il suo impegno sarà a servizio incondizionato del vescovo di Roma. Macchi si occupò di far trasferire in Vaticano la comunità delle Suore di Maria Bambina che già era a Milano e le cose personali con la biblioteca privata... Chiese agli artisti milanesi e alla Scuola d’arte “Beato Angelico” di disegnare ed eseguire la tiara per la celebrazione di inizio pontificato... Si accordò con monsignor Capovilla, segretario di papa Giovanni, per avere delucidazioni sull’appartamento papale... Con Paolo VI stabilì l’orario giornaliero ritmato tra preghiera, lavoro, udienze e incontri con i collaboratori della Segreteria di Stato...», così scrive monsignor Ettore Malnati nel suo Ricordo di monsignor Macchi (appena pubblicato dall’editore Luglioprint). Nelle pagine emerge soprattutto la tenacia di Macchi per «far entrare nell’appartamento pontificio le istanze, i travagli della civiltà moderna, i problemi del mondo del lavoro, delle carceri, degli artisti, delle Chiese del terzo mondo, dei rom, di monaci e monache, delle Piccole Sorelle di padre De Foucauld e dell’Opera di don Zeno: Nomadelfia». Oltre al lavoro nella preparazione dei viaggi, nei contatti ecumenici, nell’aiuto a poveri e detenuti insieme all’Elemosiniere pontificio Antonio Travia. Ed è sempre Malnati a ricordarci il legame mantenuto con amici d’antica data suoi e di Paolo VI. Soffermandosi poi sulle iniziative del prete ambrosiano nella tragedia di Moro. Consultato dai successori di Paolo VI, Macchi tornò a Milano dopo un ritiro nell’eremo costruito da Charles De Foucauld nel deserto. Stabilita la sua residenza presso la Casa di Redenzione di Villa Clerici a Niguarda – dove c’era anche il laboratorio degli artisti Manfrini e Rudelli – fece vita comune con i Paolini dell’Opera cardinal Ferrari, prestando il suo ministero presso le Suore di monsignor Sonzini, impegnate ad accogliere giovani straniere in cerca di lavoro. Poi, mentre contribuiva a gettare le basi dell’Istituto Paolo VI e a tener viva la memoria del “suo” Papa, gli venne chiesto di farsi carico del Santuario e della parrocchia di Santa Maria del Monte, che rivitalizzò e dove nell’84 accolse papa Wojytla assieme al cardinal Martini. 

Da arciprete del Sacro Monte passò poi a Loreto, dopo aver provato a dissuadere Giovanni Paolo II che il 6 gennaio ’89 lo ordinò vescovo in San Pietro. Nel suo periodo alla Santa Casa vi fu tutto un prodigarsi di iniziative e a Loreto accolse Giovanni Paolo II nel ’94, a conclusione della Grande preghiera per l’Italia, poi nel ’95 all’incontro dei giovani europei. Quindi, nel ’96 la rinuncia e la scelta di ritirarsi presso le Romite alla Bernaga in Brianza, per dedicare ogni energia a far conoscere meglio il pensiero di Paolo VI: da lì continuò a essere a disposizione dei vari processi diocesani per la beatificazione, da lì partì alla ricerca di utili testimonianze in Europa, lì ideò iniziative e pubblicazioni, vivendo al contempo la sobrietà e i ritmi monastici. «Povertà per sé e generosità concreta per gli altri» ricorda Malnati, «per la Terra Santa dove aiutò l’ospedale di Nazaret; un’opera a Betlemme; il Seminario dedicato a Paolo VI in Costa d’Avorio; le Piccole Sorelle di De Foucauld; un suo compagno missionario in India; alcune famiglie di carcerati; l’opera di don Giuseppe Froid per gli zingari dell’Alsazia; l’Istituto Paolo VI di Brescia; diversi vescovi missionari e alcune diocesi dell’America Latina visitate da Paolo VI...». Macchi è stato anche questo.
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