martedì 14 agosto 2018
Il responsabile del Servizio nazionale di pastorale giovanile commenta l'incontro dei ragazzi italiani con papa Francesco e «il suo invito a diventare adulti»
L'incontro di papa Francesco con i ragazzi italiani (Ansa)

L'incontro di papa Francesco con i ragazzi italiani (Ansa)

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Missione compiuta. A distanza di 48 ore dall’incontro del Circo Massimo e di 24 dalla mattinata di piazza San Pietro, don Michele Falabretti rilegge il duplice evento che ha portato 70mila giovani italiani all’incontro con Francesco e traccia un bilancio positivo: «Tra i ragazzi e il Papa – dice il responsabile del Servizio nazionale di pastorale giovanile della Cei – c’è stato un reciproco, fecondo ascolto».

Se lo scopo era quello di ascoltare i giovani in vista del Sinodo, che cosa hanno detto dunque i giovani alla Chiesa e al Papa sabato e domenica?
Proprio che vogliono essere ascoltati. Noi adulti – vescovi, sacerdoti, educatori, genitori – pensiamo di saperli ascoltare, ma dobbiamo entrare nell’ordine di idee che con i giovani va speso del tempo. Altrimenti non riusciremo a capirli. Non è vero che non è più possibile educarli. Ma è possibile farlo a partire da un ascolto serio, paziente e prolungato.

E questo è avvenuto nel duplice incontro di Roma?
A mio parere sì. I ragazzi si sono raccontati al Papa con verità e libertà. E il Papa non ha mancato di farlo notare, “uscendo” molto dai confini del testo preparato, e dichiarandosi colpito dal modo con cui avevano parlato. Del resto è rimasto al Circo Massimo molto di più del previsto.

Un’indicazione di metodo valida a tutti i livelli?
Penso di sì. Molti vescovi hanno camminato con i ragazzi. E tutti mi hanno detto: “Camminando si accorciano le distanze e si aprono i cuori”. Sono tante le storie belle “fiorite” durante i cammini. Ad esempio quel padre che veniva fuori da una brutta vicenda personale e che, per recuperare il rapporto con il figlio, ha camminato insieme con lui. Oppure quel vescovo che ha spinto la carrozzina di un disabile come hanno fatto, un po’ per uno, gli altri membri del gruppo. Fino a presenze che non t’aspetti, come quella di Franco Bonisoli, ex terrorista delle Br, o di un ragazzo musulmano del Burkina Faso.

Dopo l’ascolto, come è possibile riassumere la risposta, o meglio le diverse risposte, del Papa?
Francesco ha messo in campo la sua esperienza di vita. È stato un educatore e come educatore ha cercato di travasare l’idea del bene nel cuore e nella mente dei giovani. In fondo il suo messaggio è: non lasciate morire la speranza (il discorso sui sogni), fate crescere il bene. Anche lo stesso passaggio sui falsi sogni indotti dalle pastiglie va letto così. Il Papa è un uomo che ha visto le periferie e la devastazione che certe cose producono. E perciò con affetto, proprio come un buon padre, cerca di mettere in guardia i ragazzi, affinché le loro vite non vadano perdute.

Ha accennato alle "pastiglie", uno dei passaggi forti dei discorsi del Papa. Ma, oltre la droga, ci sono altre "pastiglie" che impediscono ai giovani di coltivare i loro sogni?
Penso che una di queste “pastiglie” sia il modello di vita – spesso propagandato proprio da noi adulti – basato sul consumismo fine a se stesso. Il Papa invece ha detto che al centro della vita non ci sono le cose, ma le relazioni: accoglienza, fraternità. Il che non significa «smetto di vivere io perché deve vivere l’altro», ma «accolgo perché ce n’è per tutti e due».

C’è dunque anche un messaggio "politico" nel dialogo di sabato e domenica tra il Papa e il giovani?
Non so se si può definire tale, ma è certo che dietro le parole di Francesco c’è una idea di mondo diverso. “Politica” è invece senz’altro la metodologia adottata. Perché spingere i ragazzi a organizzare un cammino, attraversando i territori, significa dire che la Chiesa questo mondo vuole abitarlo, camminando insieme agli uomini, anche quelli di un diverso sentire. E perciò, anche se è faticoso, è possibile costruire un mondo dove ci si aspetta, ci si accoglie, ci si ascolta e ci si prende per mano.

La sintesi di tutto può essere la frase del Papa “È buono non fare il male, ma è malo (cattivo, ndr) non fare il bene”?
Sì, certo. Ed è anche un’indicazione pastorale di grande rilievo. Passare dal semplice astenersi al fare. Soprattutto per contrastare la mentalità secondo cui «la vita è talmente rischiosa la vita che devi pensare solo a te stesso». In realtà è l’esatto contrario. Guardarsi l’ombelico è l’atteggiamento dell’adolescente. Guardare a chi ci sta intorno è l’atteggiamento dell’adulto. Nel pensiero del Papa c’è l’invito a diventare adulti.

Si diceva, bilancio positivo. Ma allora, se tanti ragazzi hanno partecipato, la “generazione Gmg” non è poi morta del tutto.
Intendiamoci, non è finita la “Generazione Gmg”, intesa come disponibilità dei giovani a mettersi in gioco con la Chiesa, ma un certo modo di intendere e di vivere le Gmg. Non basta più parlare. Bisogna saper ascoltare. Ciò che invece va assolutamente salvaguardata è l’idea della convocazione, originaria della Gmg, anche come antidoto alla cultura di oggi imperniata sull’idea che ognuno si fa da solo. Non è così. E il cammino fatto insieme vuole tradurre proprio questo nuovo modo di vivere i grandi eventi come la Gmg.

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