mercoledì 24 settembre 2014
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Caro direttore,
il Sinodo si avvicina e il popolo di Dio lo attende con fiducia. Alcuni giorni fa mi stavo confrontando con un saggio amico sacerdote sulla spinosa questione della comunione ai divorziati, che mi sta a cuore. Mi è stata proposta una prospettiva di approccio al problema che mi è apparsa chiarificatrice, almeno in relazione a chi “subisce” la rottura del vincolo contro la propria volontà. Mi piacerebbe condividere questa riflessione e, magari, sentirla commentare da un teologo moralista. Ecco di cosa si tratta. Quando una coppia di fidanzati chiede alla Chiesa di poter celebrare il matrimonio e ne ottiene l’assenso (dopo la necessaria formazione e le dovute verifiche da parte di chi di dovere), in qualche misura la Chiesa stessa si fa garante di quella vocazione al matrimonio, che dunque di per sé esclude – per i due sposi – la chiamata al celibato o alla verginità (intesi, ovviamente, come “stati di vita”). Poi, purtroppo, accade che uno dei due coniugi con il proprio comportamento causi irreparabilmente la rottura del patto matrimoniale. Come può, a questo punto, la stessa Chiesa che aveva “certificato” la vocazione al matrimonio di entrambi (dunque anche del coniuge “innocente”) pretendere ancora da entrambi una vita da celibe (o da vergine), pena la non ammissione ai sacramenti? Possibile che per fare serenamente la comunione anche il coniuge che abbia subito la rottura del vincolo matrimoniale debba “rinunciare” alla propria vocazione al matrimonio e votarsi a una forma di vita (verginale o celibataria) alla quale non è stato chiamato? Capirà se le chiedo di tenere per sé il mio nome e cognome.
Lettera firmata
 
Caro e gentile lettore,
il direttore mi affida la risposta alla sua lettera e io accetto volentieri. La Chiesa, ammettendo due persone al matrimonio sacramentale, non “si fa garante”, non “certifica” la loro vocazione al matrimonio. La Chiesa constata quello che i contraenti esprimono. Essa semplicemente verifica, per quanto umanamente accertabile, il darsi – nei due contraenti – delle condizioni sufficienti a esprimere un consenso valido e ammetterli così al matrimonio sacramentale. Tale verifica e ammissione avviene sulla base di una certezza morale (non fisica, matematica, apodittica), che in quanto tale non esclude l’errore e il vizio di consenso. Tanto che – a seguito di un’indagine e un processo canonico – si può accertare l’errore e il vizio e dichiarare nullo il matrimonio. I contraenti, a motivo dell’errore e del vizio, non hanno espresso un consenso valido: il sacramento per essi non c’è. Là dove il consenso è stato espresso in tutta consapevolezza e volontarietà: il sacramento c’è, è valido, e non è nel potere di nessuno scioglierlo. La Chiesa non “pretende” nulla. Dice semplicemente che non può attribuirsi un potere che non le è stato dato: rescindere un vincolo indissolubile e ammettere a un nuovo matrimonio chi è unito con vincolo sacramentale valido. Piuttosto invita i coniugi alla riconciliazione.
C’è chi, in presenza di una rottura ormai irreversibile, nell’incapacità di vivere una vita celibataria, procede a seconde nozze con rito civile: è il caso dei divorziati risposati. Per i quali si pone il problema della possibilità della comunione eucaristica. Quanto meno, si dice, per la parte che ha subito la rottura del matrimonio. Possibilità finora esclusa – per motivi che abbiamo tempo fa spiegato sul nostro giornale – per chi vive more uxorio con il proprio partner. Intanto la situazione dei cristiani risposati, per la sua ampiezza crescente, è divenuta una importante “questione pastorale”. Gli ultimi Pontefici ne erano ben consapevoli e lo hanno dichiarato espressamente. Papa Francesco ha indetto un sinodo straordinario sulla famiglia, in cui affrontare, tra l’altro, anche questa realtà. Non certo per aprire la via a un secondo matrimonio sacramentale, permanendo il primo; ma per considerare se e a quali condizioni tali cristiani possono essere ammessi all’Eucaristia. Il convenire sinodale – sotto l’azione dello Spirito, assicurato dal Signore a chi nella Chiesa ha il munus docendi – ci dirà una parola di verità e prassi pastorale anche (ma non solo) su questo punto.
Don Mauro Cozzoli
Ordinario di Teologia Morale
Pontificia Università Lateranense
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