martedì 30 settembre 2014
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Di seguito il discorso tenuto da monsignor Nunzio Galantino, Vescovo di Cassano all'Ionio e segretario generale della Conferenza episcopale italiana all'inaugurazione della Settimana della Scuola, rassegna di eventi proposta dalla Diocesi di Vicenza all’inizio del nuovo anno scolastico. “Per educare un figlio ci vuole un villaggio. La Chiesa per la scuola dopo l’incontro con il Papa il 10 Maggio” (Vicenza, 30 Settembre 2014) 1. La scuola: luogo di crescita, di incontro e di verifica Non è facile oggi indirizzare parole a chi vive nel mondo della scuola; si tratta, infatti, di un ambito attraversato da profondi segnali di trasformazione, tesi a cercare nuove configurazioni per un sistema formativo che si vuole all’altezza delle sfide di questo tempo. Non facile, dunque, eppure occorre farlo: la scuola – ne siamo convinti - è luogo strategico per la formazione delle giovani generazioni; in essa prendono forma elementi fondamentali della vita delle persone, che contribuiscono a plasmare la stessa vita sociale. Quando la Chiesa guarda alla scuola non è certo per dovere che lo fa. Papa Francesco nell’intervento del 10 maggio 2014 ha indicato lo stile con il quale la Chiesa ha guardato e guarda alla scuola. In una Piazza San Pietro piena di giovani, genitori, insegnanti, dirigenti e personale ausiliario parlava della scuola come luogo da amare; lui che – lo sappiamo – ne ha fatto per lunghi anni esperienza. Ho accettato di venire qui per invitare a condividere un simile amore per la scuola (pur con tutte le contraddizioni che la attraversano), perché essa è uno spazio che offre la possibilità di vivere alcune esperienze fondamentali di umanità, non solo ai ragazzi che la frequentano. Lo stesso Papa Francesco parlava della scuola come fondamentale luogo di crescita, in diverse aree, che meritano di essere richiamate. Mi permetto di aggiungere che, oltre ad essere luogo fondamentale di crescita, la scuola è anche, come avrò modo di dire ancora più avanti, luogo di incontro e luogo di verifica. Incontro tra soggetti e gruppi di soggetti diversi. Immaginate quanti soggetti e quanto diversi tra loro per età, formazione di base e motivazioni di base – si incontrano a scuola! Ma la scuola è anche luogo di verifica. I soggetti che si incontrano a scuola, se vogliono verificare la coerenza della e nella propria vita sono obbligati a farlo in riferimento alla scuola, al loro modo di abitare questo luogo e al livello di contributo che sono in grado di offrire perché la scuola realizzi le sue finalità progettuali. In altri termini, uno studente, un insegnante, un dirigente, un ausiliare e gli stessi genitori, se vogliono verificare la serietà del loro impegno non possono farlo se non verificando la qualità del proprio apporto al raggiungimento delle finalità progettuali della scuola. È qui che ognuno a modo suo e con il grado di responsabilità che gli è proprio trascorre gran parte della sua giornata; ed è qui che ognuno è chiamato a investire le proprie energie, come ho già detto, per la realizzazione delle finalità proprie della scuola. Ho parlato di “finalità progettuali”. Sono consapevole che non sempre e non a tutti queste sono sufficientemente e costantemente chiare. Anzi, talvolta è proprio la mancanza di questa chiarezza a ritardare un approccio sim-patico e creativo alla scuola. 2.    L’idr … oltre la neutralità, in una scuola e con protagonisti al servizio della identità. A parte l’importanza di tutto ciò che materialmente contribuisce a definire la scuola come luogo strategico di formazione, come spazio che favorisce l’ incontro e come interfaccia per la verifica, alla scuola vanno riconosciute delle finalità che le danno una identità precisa. La scuola esiste, in primo luogo, per essere spazio di crescita nella conoscenza, sviluppando progressivamente un’apertura al reale nella varietà delle sue dimensioni. È la scuola, infatti, il primo ambito in cui impariamo a conoscere tante realtà che vanno aldilà della nostra esperienza quotidiana, avviando un percorso che ci condurrà via via ad incontrare forme di pensiero sempre più articolate. È nella scuola che impariamo a cogliere la ricchezza culturale sviluppata dall’umanità, le tante testimonianze della nostra singolare creatività. È nella scuola che impariamo ad esprimerci, diventando noi stessi – in misura diversa – creativi produttori di cultura. La pluralità delle discipline insegnate ed apprese fa emergere tale ricchezza, espressione della complessità di un reale che non sopporta di essere racchiuso entro approcci delimitati e mortificanti per il pensiero. Una scuola che si rispetti deve sentirsi impegnata a far risaltare la rete di interazioni che lega le diverse discipline, aiutando a cogliere la trama profondamente unitaria del reale che abitiamo. Davvero quando il cammino scolastico viene proposto in modo efficace e seguito attivamente, si dischiudono orizzonti via via più ampi, in uno stupore che stimola a cercare ancora, sempre e di nuovo. In un contesto in cui la globalizzazione tende ad inghiottire tutte le differenze, suscitando per reazione la violenza cieca dei fondamentalismi, trova la sua collocazione l’Insegnamento della Religione Cattolica, col suo contributo prezioso ed assolutamente specifico. Un primo e decisivo passo che deve compiere questo insegnamento perché la sua presenza nell’areopago culturale contemporaneo possa essere effettivamente prezioso e specifico mi sembra quello di un chiaro contributo che vada nella direzione di un sano recupero della identità a tutti i livelli: da quello personale a quello culturale. Che questo non possa darsi per scontato, lo dimostrano alcune proposte circolate e ancora in circolazione intorno all’insegnamento della Religione cattolica. Ne presento due che, per certi versi si collocano agli estremi. a) La prima di queste proposte chiede di trasformare di trasformare l’Idr in studio di storia delle religioni significa semplicemente intendere la scuola come un luogo in cui si deve trovare non tutto ma di tutto e dove scegliere quello che più aggrada. Se invece la scuola è il luogo dove formarsi, riappropriandosi, tra l’altro, della tradizione e della propria identità, che non rifiuta il confronto critico con altre tradizioni e con altre identità, allora il problema è quello di conoscere e di approfondire quello che la tradizione e le proprie radici culturali propongono, per farne la base di tutte le possibili scelte soggettive, che saranno tali proprio perché radicate su un terreno solido. Nel vuoto o nella conoscenza superficiale non si può neppure scegliere. Far studiare la storia delle religioni, mettendo queste tutte sullo stesso piano, sulla linea cioè di un falso universalismo, uccide l’identità. b) C’è anche chi avanza una ipotesi estrema. E così io ve la presento. Chi avanza questa seconda proposta si chiede se oggi, in un momento in cui il multiculturalismo rischia di trasformarsi in una potenziale disgregazione della nostra identità culturale, riducendo il nostro paese a un mero contenitore e innescando il forte rischio di conflitti etnici e religiosi, non sia opportuno per tutti, anche per gli aderenti ad altre fedi, lo studio della religione cattolica (non il catechismo). Non per imporre l’adesione ad essa, ma per poter ottenere la conoscenza minima, da parte degli stranieri che vivono in Italia, delle nostre tradizioni. Al di là di questa ipotesi, che ho chiamato estrema, si può fare qualche osservazione. La prima osservazione vorrei legarla al disperato bisogno di un recupero dell’identità che si avverte in un clima come quello sopra descritto. Il grande pericolo è rappresentato dalla sovrabbondanza di messaggi che travolge la stessa autonomia di giudizio, in un vuoto che rende impossibile esercitare la libertà, in un condizionamento delle mode che falsa l’autenticità, un’autoreferenzialità che isterilisce l’autorealizzazione, in un eccesso di messaggi che banalizza e disperde la comunicazione. Quando si rinunzia a guardare con occhio critico a questa situazione e quando ci si adegua in maniera acritica a tutto questo, c’è il pericolo di cadere in quello che qualcuno ha chiamato un grande “brodo primordiale”, in cui tutto si equivale, si mescola e si confonde, uccidendo la fisionomia unica e irripetibile delle idee e quella delle persone. Una realtà, insomma, in cui annegano le differenze e la personalità si frammenta nel gioco incessante delle esperienze. Se la scuola vuole conservare il suo ruolo formativo e se vuole contribuire a superare questa condizione perversa, bisogna che riscopra la sua funzione educativa e bisogna che la proposta educativa, da chiunque venga, abbia una sua identità precisa. Dal punto di vista pedagogico è indispensabile che allo studente venga offerta una proposta da assumere come punto di riferimento e che, contestualmente, gli vengano offerti gli strumenti critici per testarne la validità. A questo proposito, permettetemi di fare una osservazione. Alcuni insegnanti, assertori a tutto campo della neutralità, la fanno coincidere addirittura con la onestà intellettuale, cadendo in un grosso equivoco del quale ha fatto giustizia l’ermeneutica contemporanea. L’ermeneutica contemporanea ci ha fatto capire che la neutralità non esiste. Chi guarda i problemi li affronta inevitabilmente da un punto di vista. Per cui, capite quanti limiti presenta l’atteggiamento di alcuni docenti cattolici che, troppe volte, sono invisibili, si mimetizzano fino al punto da essere irriconoscibili, non solo religiosamente, ma anche culturalmente. Magari in parrocchia fanno il catechismo e partecipano al consiglio parrocchiale. Ma, a scuola, credono loro dovere, in nome di una malintesa neutralità, appendere le loro idee all’attaccapanni. Il superamento di questi atteggiamenti paradossali dal punto di vista culturale e professionale suppongono che i soggetti del processo educativo curino la loro formazione intellettuale e che, chi insegna religione cattolica, questa formazione intellettuale la faccia nell’orizzonte di una fede vissuta da una mente che pensa. Perché tutto ciò diventi storia quotidiana che contribuisce alla crescita dell’umano è necessario che la ricchezza di contenuti che caratterizza ogni insegnamento - si tratti dell’IRC o di altre aree disciplinari – venga presentata con competenza, in tutta la sua specificità, per essere accolta come espressione di uno sguardo significativo sull’uomo e sul mondo. Il docente deve essere lui stesso davvero esperto ed, anzi – vorrei dire - innamorato di ciò che insegna; solo così potrà suscitare (avvalendosi delle opportune mediazioni didattiche) interesse e passione per la conoscenza; solo così potrà corrispondere appieno a quella vera e propria vocazione che è il mestiere dell’insegnante. Agli studenti, d’altra parte, si chiede di coltivare la curiositas - quella virtù che porta a cercare di comprendere sempre meglio, ad esplorare la ricchezza del reale, a porre domande sempre nuove a chi insegna. Questo positivo mix tra competenza e passione negli insegnanti e un atteggiamento di creativa curiositas negli studenti vanno finalizzati con sempre maggiore consapevolezza al riconoscimento ma anche all’acquisizione dei valori irrinunciabili che concorrono a definire l’umano. 3. La scuola luogo per intessere relazioni educative Se, a differenza di quanto ho detto fin qui, parlassimo dell’esperienza scolastica solo come trasmissione di sapere coglieremmo una dimensione che è – sì - assolutamente fondamentale, ma anche abbastanza parziale. Aldilà dei libri (o dei CD ROM o delle LIM), la scuola è anche – come ho già accennato - e soprattutto ambito in cui sempre e di nuovo facciamo esperienza concreta – nei volti di coloro che vi incontriamo – della diversità che abita l’umanità. La scuola è cioè, costitutivamente, anche luogo di relazione, spazio nel quale persone diverse, portatrici di esperienze diverse e talvolta culture diverse, intessono relazioni che sono esse stesse di grande spessore educativo. Papa Francesco ha richiamato più volte il suo amore per una diversità che non è contrapposizione facendo riferimento all’immagine del poliedro, in cui ogni faccia contribuisce alla forma complessiva con le proprie caratteristiche, che non sono identiche a quelle delle altre. Certo, non è facile far interagire costruttivamente tanta diversità ed è importante che chi opera nella scuola sappia vivere una grande ricchezza di umanità, una capacità di tessere relazioni tra coloro che abitano lo spazio scolastico, in modo che esso stesso ne venga plasmato e formato. Ogni scuola, del resto, opera in modo davvero efficace quando vive come comunità, formata da una molteplicità di figure capaci di collaborare per contribuire alla missione educativa operando in modo sinergico. Di più, la scuola si inserisce in un contesto di più ampio respiro ed è chiamata a un’interazione costruttiva con esso – a partire dalla realtà delle famiglie, che ad essa affidano i propri figli e le proprie figlie, ma che conservano tutta la responsabilità educativa nei loro confronti. Giustamente papa Francesco, nel suo intervento dello scorso 10 maggio richiamava un proverbio: “Per educare un figlio ci vuole un villaggio” – una rete di relazioni vive e positive, abbia la possibilità di svilupparsi la singolarità di ognuno ed ognuna. Ecco, allora, che la dimensione dell’accoglienza - in primo luogo, nei confronti di coloro che per motivi diversi (sociali, economici, psicologici…) vivono l’esperienza della fragilità - costituisce una dimensione essenziale per l’esperienza scolastica. Solo una scuola che sappia praticare l’accoglienza nei confronti di tutti potrà educare persone a loro volta accoglienti, capaci di abitare lo spazio delle nostre città in forme costruttive – forti e tenaci nel contribuire al bene comune, ma mai arroganti nel confrontarsi con chi lo fa da prospettive diverse. L’esperienza scolastica, insomma, riveste anche in questo senso una fondamentale valenza civile, come momento cruciale per la formazione dei cittadini capaci di socialità positiva e costruttori di pace. Vale la pena di sottolineare in modo particolare quest’ultima espressione, in un tempo che vede riemergere all’orizzonte internazionale la pretesa di legittimare la violenza nei confronti di chi vive esperienze religiose o culturali diverse dalla propria. La fede cristiana rigetta tali posizioni, per affermare invece con forza la dignità di ogni persona quale fondamento della pace e di una positiva convivenza all’interno della famiglia umana. Molti sono certo gli ambiti nei quali è necessario operare per educare in tal senso, ma non c’è dubbio che la scuola giochi un ruolo importante, formando alla pace tramite un’esperienza di relazioni tra diversi, nell’accoglienza reciproca, nella condivisione di un vissuto di umanità. 4.  La scuola per un nuovo umanesimo Il vero, profondo senso ultimo dell’esperienza scolastica è quello di offrire uno spazio nel quale vivere percorsi per sperimentare e comprendere sempre meglio cosa voglia dire essere umani. Esseri umani curiosi e desiderosi di comprendere; esseri che esistono grazie ad una rete di relazioni vivificanti: a scuola impariamo soprattutto questo (più ancora che l’una o l’altra specifica nozione). Per questo è davvero grave quando la scuola tradisce tale prospettiva, quando diviene terreno di scontro tra diverse ideologie o interessi particolari, quando si smarrisce il rispetto per le persone (specie le più deboli), quando si svilisce la domanda di conoscenza. Al contrario, essa corrisponde appieno alla propria vocazione quando diviene spazio di formazione a un umanità vissuta a tutto tondo, a una vita buona, vera e bella; quando i diversi saperi disciplinari convergono nell’offrire agli studenti strumenti per comprendere questo nostro tempo così complesso, ma anche un orizzonte di sapienza che aiuti ad abitarlo in modo sensato, con uno stile di vita libero, coraggioso, delicato, sostenibile. La comunità cristiana testimonia – anche nello spazio della scuola – quanto potente sia il contributo che può offrire in tale processo formativo il riferimento a Gesù Cristo. Con grande umiltà essa indica in Lui lo splendore di una figura di umanità riuscita, ricca ed intensa nelle relazioni, generatrice di pace e aperta al mondo, alla sua bellezza, alla sua conoscenza. Una figura che si offre a ogni uomo ed ogni donna - a ogni ragazzo e ad ogni ragazza, a ogni bambino e ad ogni bambina - come indicazione di un fecondo cammino di vita buona, invitando a sperimentarlo nella propria esistenza (nelle grandi scelte che ad essa danno forma, così come nel quotidiano di ogni giorno). Questo è anche il senso della prospettiva che la Chiesa italiana si sta preparando a vivere con il Convegno Ecclesiale che si terrà a Firenze nel novembre 2015: disegnare un’esperienza intensa, nella quale toccare con mano e condividere cosa significhi vivere “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, come tale prospettiva possa aiutare ad abitare le diverse dimensioni della nostra umanità. Un’esperienza nella quale possano con-venire tanti volti, che riflettono in modo diverso la luce che promana da quell’unica figura: Cristo Gesù. 5. « Solo de’ grandi uomini possono formare degli altri grandi uomini» (1) Prima di concludere vorrei dedicare ancora una parola in modo specifico agli insegnanti: ad essi è affidato il compito fondamentale di contribuire a far crescere le nuove generazioni, di trasmettere ad esse saperi e atteggiamenti vitali, di far vivere quell’umanesimo che è così necessario per una vita buona. Vorrei esprimere tutto l’apprezzamento per ciò che tanti insegnanti fanno, spesso in condizioni economiche ed ambientali tutt’altro che facili – e spesso con scarso riconoscimento sociale - ma anche richiamare la bellezza di un compito che consente di condividere la freschezza di un’umanità che si forma. Vorrei, però, ricordare che anche l’insegnante è chiamato a lasciarsi trasformare dall’esperienza educativa; che il vero educatore porta sempre in sé – quasi come una ferita – il portato di un agire che intreccia la competenza professionale con una forte capacità di dialogo ed attenzione per la persona. Ecco, allora, che comprendiamo quanto possano toccare anche l’esperienza dell’insegnante le parole rivolte da papa Francesco ai vescovi dell’Asia il 17 agosto: “non può esserci dialogo autentico se non siamo capaci di aprire la mente e il cuore, con empatia e sincera accoglienza verso coloro ai quali parliamo”. Empatia, però, non significa solo “ascoltare le parole che gli altri pronunciano”, ma soprattutto “cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore”. Anche in questo, anche nello stile di comunicazione e condivisione che sappiamo far vivere nell’esperienza scolastica possiamo offrire testimonianza di un’umanità rinnovata, che sa far propria l’ospitalità accogliente che è stata di Gesù di Nazareth, per farla vivere nella storia e nel tempo. Nunzio Galantino Vescovo di Cassano all’Jonio Segretario generale della Cei------------------------------------------------------------------------------------(1) A. ROSMINI, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, n. 27, p. 106; n. 34, p.113.
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