martedì 19 gennaio 2010
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Pubblichiamo ampi stralci dell’indi­rizzo di saluto rivolto domenica scor­sa nella Sinagoga di Roma dal rabbi­no capo Riccardo Di Segni a Benedet­to XVI durante la visita alla comunità ebraica. Un saluto grato di benvenuto al Papa, Benedetto XVI, vescovo di Roma, per il gesto che compie oggi visitando il luogo più importante di preghiera della nostra Comunità. Quando un nuovo Papa veniva eletto, il Pontificato iniziava con una solenne processione per le vie di Roma. A que­sta processione dovevano partecipare anche gli ebrei della città, addobbando un tratto del lungo percorso. Tra gli ad­dobbi c’erano anche dei grandi pan­nelli elogiativi. Si sapeva tutto del loro contenuto, ma nessuno li aveva mai vi­sti in tempi recenti, fino a poco tempo fa, quando una scoperta casuale nel­l’archivio della nostra Comunità ha portato alla luce una collezione di quat­tordici di questi pannelli di cartone ri­salenti al XVIII secolo. Li abbiamo re­staurati e abbiamo organizzato una mostra speciale nel nostro museo; il Papa oggi in visita da noi sarà il primo a vedere questi pannelli; (...) I pannel­li erano il tributo dovuto a forza da sud­diti appena tollerati, chiusi in un re­cinto e limitati in tutte le loro libertà. Prima dei pannelli del XVIII secolo c’e­ra ancora peggio, l’esposizione del li­bro della Torah al Papa che si riserva­va anche di dileggiarlo. I tempi evi­dentemente sono cambiati e ringra­ziamo il Signore Benedetto che ci ha portato ad un’epoca di libertà; e dopo la libertà conquistata nel 1870, possia­mo, dai tempi del Concilio Vaticano, rapportarci con la Chiesa cattolica e il suo Papa in termini di pari dignità e ri­spetto reciproco. Sono le aperture del Concilio che rendono possibile questo rapporto; se venissero messe in di­scussione non ci sarebbe più possibi­lità di dialogo. I l tratto di Roma che gli ebrei dove­vano addobbare era quello vicino all’Arco di Tito, scelto non a caso per ricordare agli ebrei l’umiliazione della perdita dell’indipendenza politica. Ma per noi quel simbolo non è mai stato soltanto negativo; gli ebrei erano sì u­miliati e senza indipendenza, ma con­tinuavano a vivere, mentre gli imperi che li avevano assoggettati e sconfitti non esistevano più. A questo miracolo di sopravvivenza si è aggiunto il miracolo dell’indipen­denza riconquistata dello Stato d’I­sraele. Sono passati 24 anni dalla stori­ca e indimenticabile visita di papa Gio­vanni Paolo II in questa Sinagoga. Al­lora fu forte la richiesta rivolta al Papa dai nostri dirigenti di riconoscere lo Sta­to d’Israele, cosa che effettivamente av­venne pochi anni dopo. Fu un ulterio­re segno di tempi cam­biati e più maturi. Lo Sta­to di Israele è un’entità politica, garantita dal di­ritto delle genti. Ma nella nostra visione religiosa non possiamo non vede­re in tutto questo anche un disegno provvidenzia­le. Nel linguaggio comune si usano spesso espres­sioni come « terra santa » e « terra pro­messa », ma si rischia di perderne il sen­so originario e reale. La terra è la terra d’Israele, e in ebraico letteralmente non è la terra che è santa, ma è eretz haQo­desh la terra di Colui che è Santo; e la promessa è quella fatta ripetutamente dal Signore ai nostri patriarchi, Abra­mo, Isacco e Giacobbe di darla ai loro discendenti, i figli di Giacobbe-Israele, che effettivamente l’hanno avuta per lunghi periodi. Nella coscienza ebrai­ca questo è un dato fondamentale e ir­rinunciabile che è importante ricorda­re che si basa sulla Bibbia alla quale voi e noi diamo, pur nelle differenti lettu­re, un significato sacro. qui oggi presente ad accogliere papa Benedetto una rappresen­tanza ampia e significativa della nostra Comunità insieme a rappresen­tanti di istituzioni estere. Ma più delle istituzioni forse contano le memorie, le biografie di ognuno, un documento vivo ed impressionante della storia e­È braica di quest’ultimo secolo (...). Solo riferendoci ai rabbini qui presenti, rav Brudman, rabbino capo di Savion in I­sraele, ha trascorso tre anni della sua infanzia passando da un campo nazi­sta all’altro; rav Schneier, di New York, era bambino nell’inferno di Budapest del 1944; rav Shearyashuv haKohen, rabbino capo di Haifa ha combattuto nella guerra di indipendenza di Israele del 1948 ed è stato prigioniero dei Gior­dani; rav Arussi rabbino capo di Kiriat Ono discende da una famiglia emigra­ta in Israele dallo Yemen. E pensando alla nostra Comunità abbiamo qui una rappresentanza del sempre più picco­lo gruppo dei sopravvissuti ai campi di sterminio della Germania nazista. Vor­rei sottolineare come la loro storia non è solo storia di sofferenze, ma storia di resistenza e fedeltà. Qualcuno forse si sarebbe salvato se avesse abiurato. Ma non l’hanno fatto. Cito la testimonian­za, semplice e toccante, di Leone Sa­batello, da poco scomparso: «Al Collegio militare – il luogo dove e­rano stati raccolti dopo la razzia del 16 ottobre- ci chiedevano se qualcuno e­ra di religione cattolica o se volevamo diventare cattolici. Qualcuno ha detto di sì, ma noi ci siamo raccolti tutti quan­ti in famiglia e siamo rimasti quelli che siamo sempre». «Siamo rimasti quelli che siamo sem­pre » è questa forza, questa tenacia, que­sto legame che rende grande e fa cre­scere la nostra Comunità. Viviamo u­na stagione di riscoperta della nostra tradizione, di studio e di pratica della Torah . (...) Nella visita a questa Sinagoga, papa Giovanni Paolo II descrisse il rapporto tra ebrei e cristiani come quello tra fra­telli. Il racconto del Sefer Bereshit , la Ge­nesi , dà su questo delle indicazioni pre­ziose. Come spiega rav Sachs, c’è nel li­bro, dall’inizio alla fine, un filo condut­tore che lega storie diverse. Il rapporto tra fratelli comincia molto male, Caino uccide Abele. Un’altra coppia di fratel­li, Isacco e Ismaele, vive separata, vitti­ma di rivalità ereditate, ma si ritrova per un gesto di pietà alla sepoltura del pa­dre comune Abramo. Una terza cop­pia di fratelli, Esaù e Giacobbe, pari­menti conflittuale, si incontra per una breve conciliazione e un abbraccio, ma le strade dei due si separano. Final­mente la storia di Giuseppe e i suoi fra­telli, iniziata drammaticamente con un tentato omicidio e una vendita in schia­vitù si risolve con una conciliazione fi­nale quando i fratelli di Giuseppe rico­noscono il loro errore e danno prova di volersi sacrificare per l’altro. Se il nostro è un rapporto tra fratelli c’è da chie­dersi sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto au­tentico di fratellanza e comprensione; e cosa dobbiamo fare per arrivarci. Cosa dobbiamo e possiamo fare insie­me. Un esempio. Si parla molto in que­sti tempi dell’urgenza di proteggere l’ambiente. Su questo punto abbiamo delle visioni comuni e speciali da trasmettere. Il dovere di proteggere l’ambiente nasce con il primo uomo; Adamo fu posto nel giardino dell’E­den con l’obbligo di «la­vorarlo e custodirlo» ( Gen. 2:15). Bisogna ricordare che nella Bib­bia ebraica non compare mai la paro­la natura, come cosa indipendente, ma solo il concetto di creato e creatura. Sia­mo tutte creature, dalle pietre agli es­seri umani. Il cantico delle creature di Francesco d’Assisi è radicato nella spi­ritualità biblica, soprattutto dei Salmi. Possiamo per questo condividere un progetto di ecologia non idolatrica, sen­za dimenticare che alla cima della crea­zione c’è l’uomo fatto a immagine di­vina. La responsabilità va alla prote­zione di tutto il creato, ma la santità della vita, la dignità dell’uomo, la sua libertà, la sua esigenza di giustizia e di etica sono i beni primari da tutelare. Sono gli imperativi biblici che condi­vidiamo, insieme a quello della mise­ricordia; vivere la propria religione con onestà e umiltà, come potente stru­mento di crescita e promozione uma­na, senza aggressività, senza stru­mentalizzazione politica, senza farne strumento di odio, di esclusione e di morte. T erribile responsabilità dell’uo­mo. Immagini potenti del pen­siero dei nostri maestri sono sta­te spesso espresse cercando le allu­sioni nella lingua delle sacre scritture. C’è una frase dell’ Esodo (15:11) che di­ce «chi è come Te tra i potenti, baelim, o Signore». Rabbì Ishmael, testimone di orrori storici e lui stesso martire del­la repressione di Adriano, leggeva que­sta frase con una piccola variante: bai­lemim «chi è come Te o Signore, tra i muti», che assisti alle sciagure del mondo e non parli. Il silenzio di D. o la nostra incapacità di sentire la Sua voce davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile. Ma il si­lenzio dell’uomo è su un piano diver­so, ci interroga, ci sfida e non sfugge al giudizio. Ebrei, cristiani e altri fedeli sono stati perseguitati e continuano ad essere perseguitati nel mondo per la loro fe­de. Solo Colui che è il Signore del per­dono può perdonare tutti quelli che ci perseguitano. Malgrado una storia drammatica, i pro­blemi aperti e le incomprensioni, sono le visioni condivise e gli obiettivi co­muni che devono essere messi in pri­mo piano. L’immagine di rispetto e di amicizia che emana da questo incontro deve essere un esempio per tutti coloro che ci os­servano. Ma amicizia e fratellanza non devono essere esclusivi e oppositori nei confronti di altri. In particolare di tutti coloro che si riconoscono nell’eredità spirituale di Abramo. Ebrei, cristiani e musulmani sono chiamati senza e­sclusioni a questa responsabilità di pa­ce. La preghiera che si alza da questa Si­nagoga è quella per la pace universale annunciata da Isaia (66:12) per Geru­salemme, kenahar shalom ukhnachal shotef kevod goim , «la pace come un fiume e la gloria dei popoli come un torrente in piena». Grazie, shalom. Shemuel Riccardo Di Segni
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