venerdì 13 aprile 2018
Scuole, ospedali, aiuti nei campi profughi e ai tossicodipendenti. E poi il bus del sorriso per i piccoli fuggiti dalla guerra. Viaggio fra le opere realizzate grazie alla solidarietà italiana
Il bus del sorriso al centro del progetto “Quando il gioco si fa duro” per i ragazzi dei campi profughi libanesi (Foto Fondazione “Giovanni Paolo II”)

Il bus del sorriso al centro del progetto “Quando il gioco si fa duro” per i ragazzi dei campi profughi libanesi (Foto Fondazione “Giovanni Paolo II”)

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Sulla collina di Harissa la parrocchia dei frati minori francescani è una piccola oasi di pace aperta a tutti. Basta affacciarsi dalle finestre per scorgere l’azzurro del Mediterraneo, l’ultimo lembo di Beirut simile a un grigio alveare segnato da palazzi o nastri d’asfalto, e soprattutto la statua della Madonna che domina sul mare e “protegge” il Libano. Il vicario apostolico di Beirut, Cesar Essayan, guarda oltre i vetri, quasi a cercare quelle periferie umane e sociali che considera una priorità nel suo ministero. A cominciare dai profughi che sono fuggiti dalla Siria in guerra. Nessuno sa esattamente quanti siano: forse un milione, forse un milione e mezzo di rifugiati – in gran parte musulmani, ma anche cristiani – in mezzo a una popolazione che non supera i quattro milioni di abitanti ed è spalmata su un fazzoletto “verde” simile all’Abruzzo. Nel salone della parrocchia ci sarà la “cena degli ultimi”: gli invitati sono alcune famiglie siriane e i poveri del comprensorio. Con la mente Essayan torna a quando era un semplice frate minore conventuale e non ancora vescovo. «Come francescani – spiega – siamo sempre stati impegnati nell’accoglienza dei rifugiati». E racconta il «piccolo servizio», come lo definisce, che ha lanciato: portare acqua potabile fra le baracche dei campi profughi. «Una volta alla settimana partivo con un camion-cisterna e dalle nove del mattino a mezzanotte riempivo i serbatoi delle tende. Qui si vive in situazione di estremo disagio, con ridotti mezzi di sussistenza. E la povertà rischia di trasformarsi in inferiorità che determina ingiustizie». Oggi quell’intuizione di padre Essayan è diventata un progetto autonomo, ribattezzato “Acqua per la vita”. «E di questo devo ringraziare i nostri fratelli cattolici italiani», sottolinea il vescovo.

È uno straordinario ponte di solidarietà quello che unisce il Libano alla Penisola. Un ponte pressoché nascosto, eppure tangibile che vede in prima linea la Conferenza episcopale italiana ma anche numerose sigle del mondo cattolico come la Fondazione “Giovanni Paolo II” che dalla Toscana, grazie a un’idea di due diocesi – quella di Fiesole e quella di Montepulciano- Chiusi-Pienza – è accanto all’unica nazione del mondo arabo dove i cristiani sono il 40% dei residenti. Ed è stata proprio la onlus che ha sede a Firenze a dare continuità ad “Acqua per la vita” che «ha al centro prima di tutto i bambini profughi nella regione di Deir el Ahmar, nella valle della Bekaa, l’area più prossima al conflitto siriano», afferma il direttore della Fondazione, Angiolo Rossi. E aggiunge Thibault Yves Joannais, referente dei rapporti con gli enti ecclesiali: «In questi anni abbiamo dato da bere a oltre 2mila persone». La Fondazione che porta il nome del papa santo ha come «obiettivo quello di aiutare i cristiani del Medio Oriente», fa sapere il presidente Luciano Giovannetti, vescovo emerito di Fiesole.

È lui che accompagna il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, durante la visita nel Paese dei cedri. «Una lunga storia lega l’Italia al Libano – osserva l’arcivescovo di Perugia- Città delle Pieve –. Una storia di relazioni nel campo dell’arte, dell’educazione, della vita religiosa, dell’impegno alla pace. Ed è bene che questa collaborazione prosegua anche sul fronte umanitario come dimostrano le numerose iniziative in atto». Il viaggio di Bassetti, organizzato su invito del vicariato apostolico dei latini e della “Giovanni Paolo II”, è un «pellegrinaggio che vuole essere il segno della vicinanza della Chiesa italiana alle Chiese d’Oriente dove è germogliata la nostra fede e di attenzione alle tante persone rifugiate accolte da questo Paese», dichiara il cardinale.

La Cei sostiene oggi un progetto educativo per i piccoli siriani e iracheni promosso con l’associazione “Equal” concepita dal vescovo Essayan e implementato dalla onlus toscana. Un percorso che prevede anche la consegna di beni di prima necessità: dall’abbigliamento ai farmaci. Sempre alla Cei si deve un itinerario durato tre anni per il reinserimento scolastico dei bambini rifugiati. «I ragazzi che arrivano dalla Siria – evidenzia Thibault – non sono in grado di frequentare le scuole libanesi dove le lezioni si tengono in tre lingue: arabo, francese e inglese». Al massimo i “piccoli della guerra” sanno l’arabo. «E spesso hanno perso anni di scuola ». Così fra Beirut e i campi profughi della Bakaa sono state create vere e proprie classi «come risposta concreta a questa emergenza», precisa Rossi. «E sono stati almeno diecimila gli alunni che hanno potuto riprendere a studiare, contando su una rete che ha coinvolto la Fondazione, i francescani e diverse associazioni locali», aggiunge Tina Hamalaya, seduta alla scrivania dell’ufficio libanese della “Giovanni Paolo II”. Il quartier generale si trova all’interno del convento francescano di San Giuseppe nel cuore di Beirut, a due passi dalla piazza dei martiri. Il complesso è stretto fra i grattacieli dalle fattezze occidentali che stanno prendendo il posto delle case d’impronta coloniale. «La nostra Fondazione – fa sapere Giovannetti – è laica ma con chiare radici ecclesiali. E i progetti che portiamo avanti non vogliono essere cattedrali nel deserto. Anzi, non sono nostri. Devono camminare con le proprie gambe e ciò che viene realizzato non è di proprietà dell’organismo ma di chi ne usufruisce».

La Conferenza episcopale italiana guarda anche al Sud del Paese, all’area più difficile e martoriata, marcata ancora da tensioni e contrasti, regno di Hezbollah al confine con Israele. Nella cittadina di Ain Ebel c’è adesso un nuovo ospedale di comunità. È stato costruito dalla “Giovanni Paolo” insieme con l’arcidiocesi cattolico-maronita di Tiro che, sempre sostenuta dalla Cei, ha voluto anche il nuovo liceo di Rmeich nel villaggio più importante della zona. A gestire l’istituto è una cooperativa di genitori ed educatori. «Il Libano ha tradotto nel quotidiano un “segreto” che lo rende unico agli occhi dell’Occidente e dell’Oriente: il segreto del vivere insieme», afferma Bassetti. Il riferimento è a quell’equilibrio fra cristiani e musulmani che seppur fragile è scaturito dalla guerra civile e che «celebra la vittoria del perdono sulla vendetta, dell’unità sulla divisione», dice il cardinale ricordando la visita di Benedetto XVI del 2012.

Nelle sue giornate libanesi il presidente della Cei incontra le famiglie soccorse con i “Corridoi umanitari” della Comunità di Sant’Egidio, i giovani siriani di Aleppo, i genitori che con i loro figli sono stati costretti a lasciare l’Iraq. E visita la comunità di recupero per tossicodipendenti Oum el-Nour (che significa “Madre della luce”) di cui la Cei ha finanziato l’ampliamento. L’ha fondata Guy-Paul Noujaim, l’ausiliare emerito maronita di Joubbé, Sarba e Jounieh, oggi 82enne che si muove su una sedia a rotelle e ha annunciato di essere malato di cancro. «La droga strappa dal cuore l’immagine di Dio e quando se ne esce è come rinascere », sussurra Bassetti ascoltando le testimonianze di alcuni dei cento ospiti.

Durante la visita la Fondazione “Giovanni Paolo II” gli presenta uno dei suoi principali interventi. È “Quando il gioco si fa duro” che intende portare uno sprazzo di serenità fra i ragazzi dei campi profughi. Come? «Con un bus del sorriso su cui viaggia un team di psicologi, dottori, operatori sociali e animatori che si sposta fra il Nord e il Sud del Paese per aiutare i bambini e le loro famiglie », racconta il frate minore francescano padre Toufic Bou Merhi, vicario regionale della provincia araba della Regione San Paolo (che comprende Libano, Siria e Giordania). Il religioso è un punto di riferimento per i rifugiati. «Siamo chiamati alla fraternità, a riconoscersi figli dell’unico Padre», avverte.

E il vescovo Essayan gli fa eco: «La sfida che come cristiani ci attende non sta nei numeri ma nell’assoluta fedeltà al Vangelo che ci chiede di chinarsi sul nostro prossimo, chiunque esso sia». Il presule racconta al presidente della Cei il suo ultimo sogno: è il progetto di un “segretariato sociale” nel vicariato apostolico che comprende corsi di formazione professionale per donne, assistenza ai bambini, borse di studio, aiuto agli ultimi. «La nostra comunità ecclesiale ha bisogno di non sentirsi sola – conclude il vescovo Essayan –. E lo stare al nostro fianco è essenziale per garantire la presenza cristiana in questo angolo del mondo».



E le suore francescane danno un futuro ai disabili nel Nord del Libano


In principio è stata una scuola in una stanza. Poi è sorto il vero e proprio istituto. Quindi le aule sono diventate una seconda famiglia per i bambini disabili. Infine ecco il laboratorio di cucina per dare un futuro a chi ha un handicap. È stata una sfida dietro l’altra quella che hanno affrontato le suore Missionarie francescane del Sacro Cuore nel Nord del Libano. Arrivate da Cipro nel villaggio cristiano di Menjez nel 1988, in piena guerra civile, non avevano né il convento, né un’aula in cui fare scuola. Le lezioni sono iniziate in canonica con quindici alunni e per sei anni si sono svolte un po’ ovunque. Finché nel 1994 è stato completato il plesso scolastico che anche la Cei ha sostenuto. Oggi la struttura è intitolata a san Francesco d’Assisi e le suore hanno anche un loro convento dedicato sempre al Poverello. I ragazzi che ogni mattina entrano in classe – dalla materna alle medie – sono sia cristiani sia musulmani. In tutto arrivano quasi a trecento.

Poi è accaduto che alla porta della scuola abbia bussato una famiglia con due figli disabili. “Figli di un dio minore”, secondo la mentalità locale. E quindi ai margini. Le Missionarie francescane li hanno accolti a braccia aperte predisponendo una sorta di insegnamento di sostegno per i ragazzini. Adesso i portatori di handicap che frequentano la “Francesco d’Assisi” sono sessanta. «Perché la voce si è sparsa velocemente e in tanti sono arrivati da noi», dicono le religiose. Così è stata creata la sezione “La Verna” per chi ha gravi difficoltà.

Potevano fermarsi lì le suore? No. E infatti si sono domandate che cosa avrebbero fatto i loro alunni portatori di handicap una volta conclusi gli studi. Ecco l’ennesima scommessa: un corso di cucina libanese a loro misura. Oggi si tiene in un container di venti metri quadrati dove per autofinanziarsi si produce il zaatar, quel mix di timo e sesamo usato per le focacce mediorientali. Ma le Missionarie francescane hanno già un altro sogno: realizzare una cucina industriale con tanto di attrezzature professionali. E lanciano un appello anche all’Italia.
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