sabato 6 aprile 2013
Oggi il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei a Roma ha celebrato la Messa in occasione del secondo giorno del convegno nazionale sulla formazione sociopolitica “Educare alla cittadinanza responsabile 2”. «Non bisogna lasciarsi intimorire da momenti di appannamento. Questo è il tempo opportuno del lavorio nascosto ma fecondo della formazione e della maturazione di persone e di comunità dotate di franchezza e della capacità di portare una fede motivata e solida dentro la comunità civile»
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Il motivo neotestamentario della franchezza risveglia un grande interesse per noi cristiani di oggi. Esso indica qualcosa di diverso dal parlare di cose religiose, diventato senza dubbio più facile rispetto a qualche decennio fa; piuttosto, ci interroga e ci mette in questione. Si riferisce, infatti, alla naturalezza e al coraggio insieme con cui si rende testimonianza alla propria fede nelle più disparate circostanze della vita. Anche qui si conosce la sua estremizzazione, quando prende la forma del fanatismo e del fondamentalismo. Essa, tuttavia, non ha nulla di artificioso, poiché consegue alla compiuta assimilazione e maturazione della fede nel risorto fino a diventare modo ordinario di sentire, di pensare, di rapportarsi a persone e situazioni. La franchezza cristiana è espressione di una fede diventata una cosa sola con l’essere e il manifestarsi della persona credente, esternazione della sua coscienza di fondo. Tale atteggiamento tipicamente cristiano ci provoca e ci sfida perché non possiamo negare che in tante circostanze si preferisce dissimulare. Non si tratta, appunto, di ostentare, ma di esprimere, di manifestare, senza temere contrasti, resistenze, pregiudizi, nella gioiosa certezza della presenza del Signore risorto che su tutti vuole effondere il suo Spirito. La franchezza cristiana esige una matura capacità di giudizio sull’ultimo vero riferimento della coscienza e della volontà personali nell’adesione al valore supremo regolativo di ogni scelta e comportamento: se obbedire a Dio o ad altri o, peggio, ad altro. La franchezza consegue, dunque, alla misura e alla qualità della fede. Il Vangelo, in questo senso, non nasconde la difficoltà del credere. Ci sono come delle barriere da superare, diversi testimoni e segni da incontrare, prima di giungere alla soglia di una fede degna di tale nome, dell’incontro con la Presenza. Il salto che essa richiede ha bisogno di far superare la tirannia dell’evidenza sensibile, che si trasforma spesso da mediazione di una dimensione più profonda a unica e incontrovertibile verità della realtà ridotta alla sua superficie. È una tentazione tipica – ritornante potentemente in questo tempo – quella di non riuscire a penetrare la scorza della realtà per spremerne l’umore interiore, a leggere l’apparenza come un segno che rimanda ad altro, a rapportarci con la nostra esistenza e con la nostra storia cogliendone tutta la portata simbolica, la sua capacità di far parlare l’oltre, quella profondità in cui si cela e si manifesta la presenza del Vivente, il Cristo Signore risorto. La franchezza e la fede, che ne è la premessa e il fondamento, hanno qualcosa da dire a noi credenti di oggi, soprattutto perché ci invitano a non avere paura di mettere a nudo la nostra poca fede e il nostro scarso coraggio. Sommersi da una cultura dai molti feticci, come quello della privacy – così verbosamente sbandierato e altrettanto prontamente mortificato nei fatti – dobbiamo rompere l’incantesimo di una perfino teorizzata dissociazione tra coscienza privata e vita sociale, tra comportamenti personali e ruolo pubblico. Dallo sforzo verso una coerenza a tutto tondo deve scaturire un percorso che progressivamente superi l’emarginazione nel privato delle ispirazioni ideali e attesti con coraggio le motivazioni che conducono a scelte e comportamenti dal palese rilievo sociale e pubblico. La dottrina sociale della Chiesa non fa altro che richiamare costantemente alla proiezione interpersonale e sociale della dimensione più profonda di coscienza e di scelta personale nella vita del credente. In questo senso dobbiamo riflettere attentamente sui limiti di una presenza sociale e politica dei cattolici oggi da più parti stigmatizzata. Non può essere il vortice disordinato delle opinioni, più o meno interessate e indirizzate a bella posta, a dettare l’agenda e i criteri dei nostri giudizi sulla rilevanza sociale e politica del cattolicesimo nel momento attuale; ma è certo che il deficit di incidenza diventa un indice anch’esso significativo quando è carente la capacità di mobilitazione, l’elaborazione di un progetto ispirato, l’assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi per testimoniare e trasmettere il senso cristiano della vita sociale nelle sue varie articolazioni. Non bisogna lasciarsi intimorire da momenti di appannamento; ci sono fasi oscure da attraversare; ma non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle difficoltà momentanee. Questo è il tempo opportuno del lavorio nascosto ma fecondo della formazione e della maturazione di persone e di comunità dotate di franchezza e della capacità di portare una fede motivata e solida dentro l’intreccio, talora perfino caotico, dell’intera comunità civile.
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