venerdì 4 agosto 2017
A colloquio con il pastore he guida la diocesi veneta dall’ottobre 2015. I poveri? «Dobbiamo andarli a cercare e vanno fatti sentire a casa»
Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, insieme a un gruppo di migranti (Boato)

Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, insieme a un gruppo di migranti (Boato)

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Si entra senza particolari cerimonie da monsignor Cipolla. «Chiamalo don Claudio», suggeriscono i suoi collaboratori. E sia: don Claudio. Il vescovado di Padova – austero, imponente, vastissimo – raccoglie una storia millenaria di fede e di opere, esposta con solennità alle pareti. Volti severi dentro cornici massicce nei corridoi e nelle sale, fino allo studio del vescovo che ama essere chiamato “don”. Nell’anticamera lui ha già addolcito i toni: via un paio di seggioletrono tappezzate di preziosi broccati, spazio a un semplice divano su cui mettersi comodi. Ma soprattutto un enorme specchio a tutta altezza, dal pavimento al soffitto, che riflette chi arriva in visita. Per dire: la Chiesa non ha solo il volto austero dei pastori appesi alle pareti, ma anche quello delle persone normali che bussano alla porta, che aspettano una parola dal pastore.

«Sì, questo specchio serve per mostrare nuovi volti di Chiesa. Che siamo tutti noi». Cipolla è entrato a Padova, una delle diocesi più grandi d’Italia, il 18 ottobre 2015, senza conoscere affatto la città, «preso» da papa Francesco a sorpresa da una parrocchia di meno di 8mila abitanti a Mantova. E gli sembravano già tante lì, le grane... «Ma mi hanno detto: non devi accettare perché pensi di essere capace, ma perché ti è stato chiesto ». Ai padovani disse, nella prima omelia in Cattedrale: «Eccomi, sono Claudio». Semplice, no? E d’altra parte, non è questo ciò che Bergoglio ha chiesto ai vescovi in tante occasioni? Rendete «accessibile, tangibile, incontrabile » la misericordia di Dio, «siate instancabili nell’unico compito di accompagnare l’uomo che “per caso” Dio ha messo sulla vostra strada». «Sì, mi ci riconosco. Semplicità per me è sapere stare in mezzo alla gente, senza quei risvolti istituzionali e burocratici dai quali siamo stati riempiti dalla nostra storia e tradizione. Semplicità che riguarda gli ambienti in cui viviamo, gli abiti e i titoli. Via tutto quello che ci differenzia dalla povera gente, dalla quale noi siamo stati presi e tra la quale ci dobbiamo gloriare di vivere. Essere capaci di empatia con i nostri cristiani, con i fedeli delle nostre parrocchie, saper sentire le sofferenze di chi sta male, di chi è messo in disparte».


Per questo monsignor Cipolla soffre un po’ a vivere in quel palazzo così aristocratico e così solitario, che crea inevitabilmente distanza con il popolo, ma finora – ammette – non ha trovato una soluzione più semplice se non quella di riempire le stanze di altre persone con cui confrontarsi quotidianamente. Oggi nell’edificio vivono in 8, e tutti pagano regolarmente l’affitto, vescovo compreso. «È anche questa una forma di povertà: adattarsi a vivere nelle condizioni date. L’importante è non cambiare dentro, non sentirsi aristocratici perché si vive in un palazzo aristocratico ». Ma la strada della carità, tanto invocata da papa Francesco, secondo Cipolla a Padova e non solo è ancora lunga. «I poveri dovrebbero trovare nella Chiesa la loro casa e invece dobbiamo ancora andarli a cercare. Stare con i poveri non è una decisione presa a tavolino, ma è la volontà di cambiarci completamente, cambiare la nostra vita e anche le nostre strutture. E invece noi in larga misura siamo ancora il Vaticano e le Curie, siamo ancora uomini in rappresentanza».

E intanto “don Claudio” accarezza con gli occhi uno dei regali a cui è più affezionato tra quelli ricevuti in questo anno e mezzo a Padova: una bandiera della pace logora, con i colori sbiaditi. «Me l’ha donata un barbone che sedeva su un marciapiede. Mi ha riconosciuto: tempo prima avevo pranzato accanto a lui alle Cucine popolari. Voleva farmi un regalo, era l’unica cosa che possedeva. Si fanno incontri molto belli, quando si gira per le strade... ». A proposito: il vescovo in quell’occasione era andato a sorpresa a sedersi tra i suoi «amici» (così disse) alla mensa dei poveri, vicino alla stazione, nei giorni in cui l’amministrazione, allora a guida Lega Nord, aveva spedito un manipolo di vigili a controllare i documenti degli avventori. In maggioranza extracomunitari, non sempre regolari. L’arrivo del vescovo fece scalpore. «Fu una decisione d’impulso, perché la situazione lo richiedeva. Poi mi sono accorto che era anche un gesto importante. In questi casi un po’ parla il cuore, un po’ parla la fede: sai da che parte devi stare».

Nelle scorse settimane a Padova si è insediata la giunta guidata dal nuovo sindaco Sergio Giordani, sostenuto da liste civiche e dal Pd. In un recente incontro con il sindaco, il vescovo, confermando disponibilità e collaborazione con l’amministrazione, ha posto l’attenzione su alcuni temi, con uno sguardo di prospettiva: la questione educativa, la cultura, i grandi cambiamenti sociali che interessano le periferie e prima di tutto l’attenzione agli ultimi. In questa nuova fase, il vescovo che cosa augura a Padova? «Voglio dire ai cristiani di guardare in alto, di voler bene a questa città e di sperare per lei il meglio. Vorrei invitarli a non lasciarsi guidare da paure, ristrettezze e chiusure ma di intuire quale sarà la città del futuro, con i nuovi assetti sociali, e di prendersela a cuore». Alla città il presule sta regalando i Cantieri di carità e giustizia, una vasta mappatura delle realtà (oltre 70) che si prendono cura dei poveri, sul solco di quei due grandi preti padovani che furono Nervo e Pasini, due pilastri della Caritas italiana e della Fondazione Zancan, preludio di misure concrete. E in occasione della festa di sant’Antonio, lo scorso 13 giugno, ha annunciato quale sarà il «cantiere di carità e giustizia » della diocesi di Padova: le Cucine economiche popolari, che diventano fondazione canonica titolata proprio a Nervo e Zancan.

«La vita della nostra città è stata caratterizzata da molte voci urlate riguardo ad alcuni temi, e queste urla hanno rischiato più volte di oscurare i sussurri di chi vive una situazione di povertà e debolezza», commenta. Un richiamo alla città, dunque, perché sappia dare risposte e restituire dignità a chi vive ai margini. E poi c’è il futuro della Chiesa, che occupa molti pensieri del vescovo di una diocesi vastissima, che arriva fino alle montagne bellunese sfiorando il mare Adriatico, che conta 459 parrocchie, 667 preti di cui 388 hanno più di 60 anni e solo 152 meno di 50, con 4-5 nuovi sacerdoti ogni anno. Sarà una Chiesa con meno preti, più cristiani tiepidi e tutto intorno più religioni. Ma «non è tempo di piangerci addosso: è tempo di sognare cose belle ». Il vescovo ha un progetto che sta illustrando alla diocesi: una Chiesa articolata in comunità contraddistinte dallo stile della fraternità, che non vivono per se stesse ma per il territorio, dove sia possibile parlare di Dio, del suo amore, della sua misericordia, dove sostenere un’umanità spesso sofferente, in cui operino laici responsabili «capaci di farsi fratelli e di vivere ciò che il Vangelo suggerisce». Una Chiesa di condominio o di rione, si direbbe, «che non eroga servizi religiosi ma in cui si vive una vita da credenti. Una Chiesa missionaria, perché ogni cristiano si fa responsabile di chi gli abita a fianco. Una Chiesa povera perché non ha strutture da difendere.

Una Chiesa che si fa servizio, dove nessuno è un numero. Gli altri dovrebbero dire: guarda come si vogliono bene, come si prendono cura l’uno dell’altro». E le parrocchie? «Rimangono nella celebrazione dell’Eucaristia e come luogo in cui le varie comunità più piccole diventano sorelle». Un percorso affascinante, dallo sguardo lungo. E gli inciampi confermano al vescovo che la strada è quella giusta. «Ci saranno sempre nelle nostre comunità quelli che cadono, c’erano anche tra gli apostoli. Dobbiamo custodirci l’un l’altro, ci dobbiamo sentire tutti coinvolti. La fraternità è uno stile di vita, è la capacità di assumersi la responsabilità della vita del tuo fratello, dirgli: guarda, stai sbagliando». Questo è il progetto di “don Claudio”.


CHI E'

Di lui si può ben dire che è un «pastore con l’odore delle pecore»: prima di diventare vescovo di Padova, nominato da papa Francesco nel luglio 2015 (l’ingresso in diocesi il 18 ottobre), Claudio Cipolla è stato assistente dell’Agesci provinciale di Mantova e direttore della Caritas diocesana della sua città. Giovani e poveri, dunque, i «poli» della sua vita di prete. Nato nel 1955 a Goito, è diventato sacerdote nel 1980. Nel 1998 gli fu affidata la parrocchia di Sant’Antonio di Porto Mantovano e insieme la responsabilità di vicario episcopale per il settore pastorale. A Padova è succeduto a monsignor Antonio Mattiazzo, il «vescovo missionario» che ha lasciato a 75 anni dopo 30 di ministero e si è trasferito in Etiopia. Uno dei primi gesti «forti» di monsignor Cipolla è stata l’apertura di una Porta Santa per il Giubileo della misericordia nel carcere Due Palazzi, perché «Dio vuole più bene dove noi vediamo più peccato». «Al Due Palazzi mi hanno accolto come uno di loro», ha raccontato il vescovo.



I NUMERI

459 le parrocchie

1 milione gli abitanti

5 le province

667 i preti diocesani

49 i diaconi permanenti

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