venerdì 25 agosto 2017
Psicologo e giornalista, guida la diocesi sarda dal 17 aprile 2016. Lavoro e spopolamento priorità sociali. Per dodici anni missionario a Cuba: ho capito la povertà e la condivisione
Il vescovo di Ales-Terralba, Roberto Carboni, con alcuni ragazzi

Il vescovo di Ales-Terralba, Roberto Carboni, con alcuni ragazzi

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Psicologo, missionario, giornalista. Scorrendo la sua biografia, si resta colpiti dalla varietà dei talenti e dalla diversità delle esperienze vissute. Tessere di un mosaico a comporre un profilo che contiene tutti gli altri: quello di sacerdote e di vescovo. Monsignor Roberto Carboni, classe 1958, frate minore conventuale, è il pastore della diocesi sarda di Ales-Terralba. «Ringrazio spesso il Signore di avermi dato una vita tessuta di molti incontri significativi, possibilità, esempi e formazione – spiega –. Quando mi accingo a ricevere qualcuno sento che la mia formazione francescana e quella psicologica mi aiutano nell’ascolto profondo, nella pazienza, nel discernimento. Di fronte alle difficoltà per la scarsità di clero o la fatica di dovermi occupare di tante cose contemporaneamente, faccio memoria di tante esperienze difficili in missione e di quello che la gente soffre laggiù e questo mi aiuta a relativizzare i problemi. L’esperienza giornalistica invece mi aiuta alla sintesi, a cercare subito il punto della questione. Talvolta scrivo le mie omelie pensando alla struttura di un articolo di giornale con i suoi classici “chi, cosa, dove, quando?”».


L’ingresso in diocesi di “padre Roberto”, come preferisce essere chiamato, risale allo scorso 17 aprile, poco più di un anno fa. Un tempo comunque sufficiente per guardare negli occhi la sua nuova comunità, per fotografare una realtà di fede in cui il bisogno di andare avanti non può che coniugarsi con il rispetto, con l’ascolto di tradizioni molto radicate. «Ho visitato tutte le 57 parrocchie della diocesi e in diverse occasioni ho avuto modo di incontrare tanti gruppi di cristiani e parlare con loro. Inizio adesso ad insistere nel bisogno di una fede che non sia solo abitudine, che non si riduca alla tradizione o alla festa popolare - senza per questo escluderla o svalutarla - ma sia innanzitutto concentrata sull’essenziale: il ritorno a Gesù Cristo. Ai preti una volta ho domandato: “Che cosa volete che si dica di voi quando sarete andati via dalla parrocchia?”. Sarebbe bello che i cristiani dicessero: ci ha insegnato ad amare il Signore e il prossimo e a pregare Dio nostro Padre». Soprattutto in un territorio come la Sardegna la definizione, sebbene un po’ abusata, che meglio riassume la figura del vescovo è quella, tanto cara a papa Francesco, del “pastore con l’odore delle pecore”. «Questa immagine mi torna spesso alla mente quando sono in viaggio per visitare qualche comunità cristiana. Qui da noi vi sono molte greggi e molti pastori che portano le pecore al pascolo e spesso invadono la carreggiata per farle transitare da un luogo all’altro. Allora bisogna armarsi di pazienza e aspettare che il pastore le solleciti a camminare, nessuna rimanga indietro o rischi incidenti. Vedo che nella nostra Chiesa diocesana, oltre all’odore delle pecore è necessaria, per un presbitero, anche la capacità di guidare il gregge, aspettare e vigilare, custodire le deboli. Un bel programma di vita sacerdotale».


Sotto il profilo più squisitamente sociale, il territorio deve fare i conti soprattutto con la mancanza di lavoro, emergenza che spesso ha come diretta conseguenza, la fuga, lo spopolamento. Problemi che interpellano la Chiesa. «Bisogna distinguere – avverte Carboni – tra problemi legati al sociale e quelli che toccano direttamente la vita ecclesiale. Dal punto di vista sociale siamo una delle zone più povere d’Italia. Le poche industrie presenti nel territorio hanno chiuso i battenti creando disoccupazione e povertà e favorendo la fuga dei giovani alla ricerca di altre prospettive di vita. Lo spopolamento e l’accentramento dei servizi nei centri di media grandezza ha penalizzato le piccole comunità. Dal punto di vista ecclesiale, l’età elevata del clero e il numero ridotto di preti obbliga a concentrare in una stessa persona la cura di più parrocchie, non favorendo le relazioni di ascolto e accoglienza. Come Chiesa cerchiamo di dialogare con i sindaci e l’unione dei comuni, per avere un’unica voce nel presentare i problemi ai nostri responsabili politici e cercare insieme soluzioni».


Guardando alle statistiche sembra che in diocesi negli ultimi anni i funerali superino i Battesimi. Il problema dell’“inverno demografico” si fa sentire. Sono molti anche gli abbandoni dei giovani. «Purtroppo la loro fuga, specie dai piccoli paesi è costante, perché non vedono futuro. Vi sono progetti di riattivare l’agricoltura creando la filiera di servizi (ad esempio coltivazione, lavorazione, distribuzione delle mandorle) ma per adesso mi sembrano più che altro sulla carta». Una risposta, forse, può venire anche dall’immigrazione. In questa realtà non mancano esperienze di accoglienza, soprattutto verso i siriani. «Come diocesi pensiamo, in accordo con qualche comune, di mettere a disposizione delle strutture inutilizzate per accogliere qualche famiglia di migranti. Naturalmente bisogna preparare sia chi accoglie (la popolazione, l’amministrazione, la comunità cristiana) come pure coloro che arrivano, aiutandoli a capire alcuni “codici” relazionali di questa terra e di queste zone, elemento essenziale per una buona integrazione. La nostra gente in generale è accogliente, e quando si trova davanti la persona che ha bisogno, tende la mano, però è spaventata da gruppi troppo numerosi e con progetti poco chiari di inserimento. In un Comune di 900 abitanti, 100 migranti fanno la differenza!».


Nel suo profilo biografico risalta il lungo periodo, dal 2001 al 2013 trascorso come missionario a Cuba. «Gli anni di Cuba sono stati per me una grazia! Mi hanno aiutato a maturare umanamente. Ho imparato dai cubani l’immediatezza e semplicità nelle relazioni, la solidarietà e il modo di affrontare le mille difficoltà della vita quotidiana. Ma anche come francescano, Cuba mi ha insegnato cosa è davvero la povertà e al tempo stesso la condivisione di quel poco che si ha. Come sacerdote mi ha fatto toccare con mano la fame di Dio di quella gente; il desiderio di conoscere la sua Parola; di celebrare la festa dell’Eucaristia, il bisogno profondo di misericordia e di spiritualità». Altro aspetto per così dire singolare è la sua esperienza di psicologo, spesa soprattutto al servizio della formazione del clero, tema di particolarmente urgenza. Non a caso la Cei lo ha messo al centro della sua riflessione. «Qualche hanno fa girava uno slogan che mi pare sia una buona sintesi per ogni vocazione nella Chiesa: passione per Cristo, passione per l’umanità! Senza la passione per Cristo si costruisce solo sugli specchi, a volte sul proprio narcisismo e sulla sabbia anche di tante immaturità che poi progressivamente vengono fuori nel ministero. Senza la passione per l’umanità si rischia l’intimismo e una spiritualità autoreferenziale, che rischia di dimenticare l’Incarnazione». Psicologo, missionario e poi vescovo. La nomina del Papa l’ha stupita? «Sì! Mi trovavo a Bogotá in Colombia, impegnato in una settimana di formazione ai nostri formatori francescani di tutta America Latina. La telefonata della nunziatura è arrivata alle 4 del mattino a causa del fuso orario… Sono quasi caduto dal letto».


Nel suo stemma episcopale e nel suo motto ci sono un richiamo alla carità che si fa servizio anche sull’esempio di san Francesco e a Maria come stella maris. «San Francesco fa scrivere nella sua Regola che coloro che ricoprono incarichi di governo si chiamino “ministri”, cioè coloro che “devono amministrare agli altri i beni”, che si preoccupano delle persone, che danno esempio di servizio. Questa immagine mi ha ispirato. La carità poi, come dice san Paolo è tutto rispetto agli altri carismi, che sono in secondo piano. Mi è sembrato un bel programma di vita quello di coniugare il servizio e la carità, il cui primo esempio lo troviamo proprio in Maria di Nazareth che “si mette in cammino verso la montagna” dove vive Elisabetta». A distanza di un anno e mezzo dalla sua ordinazione mi può dire se è più bello o più difficile essere vescovo? «Ciò che rende bello questo servizio – conclude Carboni –, nonostante la grande responsabilità, i momenti difficili e di solitudine, è la collaborazione dei miei presbiteri dai quali ricevo aiuto, consiglio e preghiera».


CHI E' ROBERTO CARBONI


Roberto Carboni è nato a Scano Montiferro, provincia di Oristano e diocesi di Alghero-Bosa, il 12 ottobre 1958. Entrato in noviziato nel 1977 ha emesso i voti perpetui nell’Ordine dei Frati minori conventuali il 27 giugno 1982. Sacerdote dal 29 settembre 1984, dopo l’ordinazione fu inviato a Roma per proseguire gli studi in psicologia, ottenendo nel 1986 la licenza alla Pontificia Università Gregoriana. Dal 1997 è iscritto all’albo dei giornalisti in virtù della collaborazione con la rivista “Fraternità” di cui è stato direttore. Tra i numerosi incarichi è stato direttore spirituale presso il Centro nazionale di orientamento vocazionale al Sacro Convento di Assisi. Nel 2001 la partenza come missionario per Cuba dove è stato parroco, padre spirituale del Seminario interdiocesano di L’Avana, docente e membro della Commissione internazionale per la formazione del suo Ordine. Nel 2013 il rientro in Italia. Eletto alla sede vescovile di Ales-Terralba il 10 febbraio 2016, è stato ordinato e ha fatto il suo ingresso il 17 aprile.



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