mercoledì 15 luglio 2009
Un «formidabile appello alla speranza», che «scuoterà» molti cristiani impegnati nella vita politica, sociale ed economica. Nelle parole dell’ex presidente delle Settimane sociali francesi le novità della «lettera» di Benedetto XVI: il Papa ci riporta all’essenziale sottolineando che gratuità e fraternità sono le chiavi dello sviluppo «Richiama la necessità di un’etica che pervada tutte le imprese e tutta la finanza. Non può più essere rimandato il rinnovo di quegli strumenti usati finora in modo perverso»
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«L’apporto di quest’enciclica è fondamentale, soprattut­to oggi. In un momento in cui l’uomo può dubitare di se stesso più che mai, essa è un formidabile appello al­la speranza. Da tanto tempo, al più alto li­vello, non si udiva un messaggio così otti­mista e al contempo concreto sull’uomo». Fra una citazione della Caritas in veritate e un’altra, la voce di Michel Camdessus s’impenna a tratti su corde d’emozione. L’ex direttore del Fondo monetario inter­nazionale ( Fmi), nonché governatore o­norario della Banca di Francia ed ex presi­dente delle Settimane sociali d’Oltralpe, resta in prima linea su vari fronti, fra cui quello dell’emergenza idrica mondiale in qualità di consigliere speciale dell’Onu. Quali impressioni le ha lasciato la prima lettura dell’enciclica? È un testo che scuoterà, direi quasi scon­certerà, ma in positivo, molti cristiani im­pegnati nella vita politica, sociale ed eco­nomica. Molti si attendevano un messag­gio sulla crisi finanziaria, ma l’enciclica mostra che quest’ultima è il sintomo di un problema molto più profondo. Siamo in presenza di un’idra a sette teste. La crisi più immediata è finanzia­ria, ma la crisi più profonda è culturale. Ad esse si aggiungono la crisi della povertà, quel­le energetica, ambien­tale, del multilaterali­smo. Almeno sei o sette crisi s’incrociano. Il let­tore dell’enciclica ab­borda un problema più grave di quello imme­diatamente apparente. Ma si tratta di una scoperta quanto mai necessaria, dunque di una felice occasio­ne. In secondo luogo, di fronte a un’enci­clica sociale, qualcuno attendeva racco­mandazioni precise, quasi delle prescri­zioni. E invece, per usare una metafora flu­viale, si è ritrovato davanti a un’enciclica situata a monte, alla sorgente, cioè Dio che è verità e carità. È estremamente impor­tante invitare i cristiani impegnati a guar­dare verso la sorgente. Ci sono magnifici passaggi sulla Trinità come riferimento della famiglia umana. Un terzo aspetto i­natteso riguarda la focale puntata non tan­to sulle strutture umane, ma prima di tut­to sull’uomo stesso. Sulle minacce contro l’uomo, molto più che sulle debolezze da correggere nelle strutture umane. C’è in quest’enciclica una tripla inversione ri­spetto a molte attese e anche per questo si resta felicemente sorpresi. Essa ci ricon­duce all’essenziale per renderci liberi pro­prio nel momento in cui siamo chiamati a inventare nuovi progetti. Fra gli aspetti trattati a misura d’uomo, l’idea di sviluppo funge da filo condutto­re nel testo.Lo sviluppo in effetti non è visto solo in chiave economica, ma come sviluppo del­la persona, della società e dei popoli. I tre livelli avanzano assieme. La dimensione economica non è certo trascurata e in pro­posito, anzi, ci sono tanti forti passaggi. Ma, riprendendo il linguaggio della Popu­lorum progressio, il punto centrale è di tra­sformare l’uomo nell’artefice del proprio destino. Il secondo aspetto dello sviluppo che mi pare nuovo e molto interessante ri­guarda la visione dello sviluppo come vo­cazione. In origine, non è l’uomo che de­cide, ma è Dio che invita l’uomo al suo svi­luppo e a quello del mondo secondo la leg- ge morale naturale nel cuore di tutti gli uo­mini. L’insistenza sull’importanza del dono e­quivale a un appello per un capitalismo, per così dire, più polifonico? Il dono e la fraternità sono due parole chia­ve dell’enciclica. Lo sviluppo non ha sen­so se non in una prospettiva di fraternità. E vi è sviluppo economico sano solo lad­dove il dono ha un suo posto, persino al­l’interno delle transazioni di mercato. Da qui, in effetti, può na­scere l’idea di un capi­talismo più polifonico. Il Papa sottolinea che la dicotomia tradizionale fra settore pubblico e imprese di mercato ha oggi sempre meno sen­so. Per questo, l’encicli­ca invoca lo sviluppo, fra i due, di un settore d’impresa ancora lega­to alla ricerca del pro­fitto ma con un doppio motore, cioè anche ca­pace di far posto alla gratuità. Gli esempi citati vanno dal commercio solidale al settore mutualistico, passando per la mi­crofinanza. Il Papa vuole incoraggiare questo terzo settore e auspica che possa fecondare e migliorare l’economia di mercato anche attraverso forme di ibri­dazione. Per ritrovare un’armonia eco­nomica, inoltre, si dovrebbe lasciar spa­zio anche alle associazioni di consuma­tori e alla società civile. Si tratta di una vi­sione molto innovativa, pur restando al contempo nella tradizione di altre enci­cliche sociali della Chiesa. A proposito delle emergenze planetarie, si sottolinea anche il ruolo dei beni pubbli­ci come l’acqua. Come interpreta questo passaggio? Mi pare decisivo il fatto che non si parli dell’acqua solo come di un bisogno es­senziale e di un bene pubblico da preser­vare, ma anche come di un diritto. In que­sto senso, l’enciclica si smarca dalle con­clusioni dell’ultima conferenza d’Istanbul, dove non si è giunti a un accordo sul rico­noscimento esplicito di un diritto all’ac­qua. Vi è un chiaro invito del Papa a crea­re un’autorità pubblica dalla competenza universale per quelle questioni che sovra­stano l’attività dei singoli Stati. Ma, al con­tempo, l’azione attuale degli organismi in­ternazionali non viene affatto incensata. Essa dovrebbe invece essere riconsidera­ta, soprattutto alla luce del principio di sus­sidiarietà. Secondo l’enciclica, gli aiuti internazio­nali «possono a volte mantenere un po­polo in uno stato di dipendenza». Come accoglie questa osservazione? Si tratta soprattutto di un’affermazione che coglie un problema reale e molto attuale. Anche l’Africa progress panel , presieduto da Kofi Annan e di cui ho l’onore di far par­te, fa chiaramente allusione a questo pro­blema nel suo ultimo rapporto. Le cose in effetti debbono cambiare, se si vuole dav­vero approdare a uno sviluppo integral­mente umano, cioè sostenuto pienamen­te dall’apporto delle comunità locali. Anche l’appello a una maggiore respon­sabilità sociale dell’impresa sembra sfi­dare tante logiche correnti. L’etica nella vita dell’impresa viene acco­stata all’etica della finanza per sottolinea­re che in entrambi i casi occorre fare at­tenzione. Non basta introdurre imprese o strumenti finanziari etichettati come eti­ci. Occorre un’etica capace di pervadere tutte le imprese e tutta la finanza. Ed è pro­prio per questo che non può più essere ri­mandato il grande cantiere del rinnovo di tutti quegli strumenti, d’impresa o finan­ziari, che sono stati utilizzati finora in mo­do perverso.
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