lunedì 15 luglio 2019
L'abbazia bresciana, soppressa nel 1797: 50 anni fa il ritorno degli Olivetani. Nella terra e nel nome di Paolo VI. «Questa è la casa di Dio, quindi di tutti. Ed è casa dalle porte aperte»
Rodengo Saiano (Brescia): una scolaresca in visita all'abbazia olivetana

Rodengo Saiano (Brescia): una scolaresca in visita all'abbazia olivetana

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Accogliere e aiutare donne vittime di violenza in famiglia. Ospitare e affiancare coppie di sposi in crisi. Dialogare, faccia a faccia e tramite i social, con adolescenti immersi nella grande avventura di diventare grandi. Dare ascolto a cuori affaticati, feriti, d’ogni età, offrendo la pace che nasce da una vita nella quale si intrecciano Parola di Dio, liturgia, silenzio, fraternità. Lavoro. Così la comunità olivetana di Rodengo Saiano, in Franciacorta, testimonia e rinnova, nelle incandescenze del nostro tempo, l’originaria, costitutiva dimensione dell’ospitalità. «Come dice il nostro santo padre Benedetto nella Regola, quando un ospite bussa alla porta del monastero è Cristo stesso che si presenta. E se la nostra Regola è ancora così fresca e attuale, è perché scaturisce dal Vangelo», scandisce dom Benedetto Toglia, il priore dell’abbazia intitolata a san Nicola e – dall’8 febbraio scorso – a san Paolo VI.
«Siamo l’unica comunità monastica maschile in diocesi di Brescia e sentiamo la responsabilità di diventare, sempre più, un luogo dove incontrare la gratuità della preghiera e dell’ascolto – riprende il priore –. Restituire il giusto splendore alla liturgia, perché questo cenobio ne diventi scuola, ci sta particolarmente a cuore. Se anche una sola persona dovesse innamorarsi di Dio attraverso la nostra “opus Dei” – come accadde all’adolescente Giovanni Battista Montini frequentando i benedettini di Santa Maria Maddalena di Marsiglia, esuli dalla Francia e accolti non lontano da qui, a Chiari, fra il 1910 e il 1922 – si manifesterebbe il senso della nostra presenza. L’incontro con la spiritualità e la preghiera monastica lasciarono un segno decisivo, indelebile, nel cammino vocazionale del futuro Papa, che pensò addirittura di farsi monaco». Montini prese, poi, altre strade. Ma Benedetto e i suoi figli rimasero per sempre nel suo cuore.

Il priore: il nostro grazie a san Paolo VI, che ci ha riportati qui

Rodengo ne è la dimostrazione. «Questo monastero millenario, fondato dai cluniacensi, affidato dagli olivetani dal 1446, ampliato e rinnovato in età rinascimentale, fu soppresso da Napoleone nel 1797 – racconta dom Toglia –. Per 170 anni non ci fu più presenza monastica. Fino all’8 febbraio 1969, quando tornarono i primi quattro olivetani. E tornarono per volontà di Paolo VI, che, nativo di Concesio, ben conosceva Rodengo e il degrado in cui versava». Iniziò così la rinascita. Con il lungo, delicato, oneroso recupero del monumentale sito monastico, impreziosito da opere di artisti come il Romanino, il Moretto, il Gambara (e qui non mancò l’aiuto economico da parte dello stesso Paolo VI). E con la rifondazione di una presenza religiosa feconda, sempre più inserita nella Chiesa diocesana. L’8 febbraio scorso, nel 50° del ritorno a Rodengo, Paolo VI è stato associato a Nicola nel nome dell’abbazia. «Con questa intitolazione abbiamo voluto dire grazie a san Paolo VI per averci riportati qui. E abbiamo voluto onorare il Papa del dialogo con l’uomo e la cultura del suo tempo, il Papa che ha esercitato con cuore di padre il ministero petrino, e che è stato profondamente affascinato dalla Regola e dalla spiritualità benedettina», dice il priore, ricordando la solenne concelebrazione eucaristica dell’8 febbraio con l’abate generale di Monte Oliveto, dom Diego Rosa, a leggere il decreto che estende il nome dell’abbazia. «Questa è la casa di Dio, quindi è la casa di tutti, ed è casa dalle porte aperte, come ci ha detto dom Rosa aprendo le celebrazioni per il 50° del nostro ritorno a Rodengo. Così cerchiamo di essere, giorno dopo giorno».

Preghiera, studio, lavoro. E ascolto a piene mani

«Siamo una comunità giovane e dinamica costituita da nove monaci», spiega dom Toglia, 45 anni, originario di Ponticelli, Napoli, guidandoci nella visita al monastero. «Cerchiamo di vivere il nostro motto che, per intero, è “ora, lege et labora”. E comprende, dunque, lo studio della Sacra Scrittura come delle scienze umanistiche. Abbiamo due monaci che studiano al Seminario teologico del Pime, a Monza. Nei prossimi mesi saranno ordinati diaconi. La parrocchia San Nicola di Bari è affidata alla nostra cura pastorale fin dal nostro ritorno a Rodengo. Il “labora” significa anzitutto prendersi cura dell’abbazia, con la pulizia della chiesa, dei chiostri, dei giardini, il lavoro nell’orto e nel pollaio – e la pulizia dei servizi pubblici che è compito riservato al priore, perché non insuperbisca...», sorride dom Toglia. «Ma a dare senso a tutto è l’“ora”. È la vita spirituale, la preghiera, la liturgia. Qui sta la sorgente dell’ospitalità. Le persone che bussano alla nostra porta sono tantissime. C’è chi chiede aiuto alimentare e materiale immediato, chi soccorso per situazioni gravi, come le vittime di violenze in famiglia. C’è chi chiede ascolto, portando le proprie ferite fisiche e spirituali. Ci sono i ragazzi, delle scuole ad esempio, che guidiamo alla visita del monastero perché scoprano non solo il monumento, la sua storia, le opere d’arte, ma il cuore della vita monastica, che presentiamo proponendo brevi, semplici momenti di preghiera. Con san Benedetto, si va alle radici cristiane dell’Europa. E si scopre come questo luogo è soprattutto, e innanzitutto, un prezioso tabernacolo di fede. A volte nascono rapporti e amicizie che coltiviamo anche con i social. E si parla di tutto: della relazione con i genitori come dei quesiti sulla fede. Abbiamo ristrutturato l’antica foresteria del monastero dove, fra gli altri, ospitiamo coppie di sposi che vogliono condividere per alcuni giorni la nostra vita. L’anno scorso vennero due sposi novelli in crisi. Per sei giorni hanno pregato, hanno meditato, hanno ricevuto ascolto. Alla fine hanno rinnovato le promesse matrimoniali davanti a tutta la comunità. Ebbene: poche settimane fa, ho battezzato la loro bambina. L’hanno chiamata Benedetta».

«Qui si deve entrare per amare Dio. E uscire per amare il prossimo»

«Numerose coppie di sposi chiedono di essere accompagnate nel cammino spirituale. E lo facciamo ben volentieri. Quanto è necessaria e preziosa, la vocazione al matrimonio! Senza questa, non ci sarebbero nemmeno vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata – continua dom Toglia –. Io stesso vengo da una famiglia numerosa. I miei genitori hanno avuto undici figli. E hanno sempre pregato perché almeno uno di loro si consacrasse al Signore. La loro preghiera si è realizzata in me... anche se avevo un conto in sospeso con Dio. Mio padre era pompiere. E avevo nove anni quando perse la vita in un incendio per salvare la vita di una donna e del suo bambino. Che aveva esattamente nove anni. La mia stessa età. Sono certo che il mio papà, salvando quel bambino, è come se avesse voluto salvare me. Ma averlo perso così, ha acceso in me rifiuto e rabbia verso Dio. Se Dio è amore, come mi insegnava mia mamma, perché s’era portato via il mio papà in quel modo? Solo negli anni ho compreso come il Signore non permette mai il male nelle nostre vite, se non per trarne un bene maggiore. E dopo aver vissuto per lungo tempo – diciamo così – come Agostino prima della conversione, sono arrivato all’incontro decisivo con Dio mentre svolgevo il servizio di insegnante nel carcere di Ferrara. Dunque in un luogo che molti pensano senza Dio. Proprio lì, invece, è maturata la mia conversione. Lì, dove ho visto testimoniata e praticata l’opera di misericordia che chiama a “visitare i carcerati”, ho sentito con forza irresistibile il desiderio di donare la mia vita agli altri e a Cristo. E ho trovato irresistibile il fascino della figura di san Bernardo Tolomei, il fondatore degli Olivetani. Oggi mi alzo per pregare alla stessa ora in cui, da giovane, mi capitava di andare a dormire... Com’è vero che il Signore non sceglie ciò che è degno, ma rende degno ciò che sceglie! Come monaco, non faccio nulla di straordinario. La nostra vita è intreccio di preghiera e lavoro. Ma quando, con l’aiuto della Parola di Dio e dei sacramenti, riusciamo a riaccendere la speranza nella vita di chi, affaticato e ferito, viene da noi a chiedere ascolto e aiuto, la vita claustrale e il principio della stabilitas loci si manifestano come energia di annuncio, di testimonianza, di irradiazione della pace e dell’amore di Dio – conclude dom Toglia –. Ecco: qui si deve entrare per amare Dio. E uscire per amare il prossimo».

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